The Lone Ranger rappresenta il tentativo, non particolarmente riuscito, espresso dalla Disney di conferire nuova linfa vitale tanto al genere western che al personaggio del Cavaliere Solitario, il cui mito si è mantenuto ben saldo negli Stati Uniti (era l’eroe di Fonzie/Henry Winkler, nella serie tv Happy Days), dalla sua nascita nel 1933 in radio (l’emittente Wxyz di Detroit, testi di George W. Trendle e poi di Fran Stiker), per passare nel ’38 ai fumetti (le strisce di Fran Stiker ed in seguito Charles Flanders) ed approdare sugli schermi televisivi (la serie tv della CBS, dal ’49 al ’57, cui seguirono i cartoni animati, ’66-’68 e 1980) e cinematografici (i due serial del’39, e i lungometraggi datati’56, ’58,’81). Costituisce inoltre un buon paravento della citata major per provare a dar vita ad un nuovo franchise, una replica di quanto messo in atto con la saga de I pirati dei Caraibi, quattro film dal 2007 al 2011, tanto da confermarne lo stesso team: il regista Gore Verbinsky (ha diretto i primi tre), gli sceneggiatori (Ted Elliott, Terry Rossio, cui si aggiunge Justin Haythe), il produttore Jerry Bruckeimer, l’attore feticcio Johnny Depp, da un po’ di tempo a questa parte freak buono per tutte le stagioni.

Stupore e meraviglia, altri non è che Tonto (Depp), l’indiano Comanche amico e compagno d’avventure del mitico difensore di lealtà e giustizia che non vede l’ora di poterne raccontare le gesta, almeno così come le ricorda lui: nel lontano 1868, in un Texas prossimo a conoscere il progresso tramite la costruenda ferrovia, il futuro “uomo con la maschera” era John Reid (Armie Hammer), avvocato dalle idee illuminate, pronto ad applicare le regole scritte nei codici in sostituzione della legge fai da te propria di un paese di frontiera, almeno fino a quando suo fratello Dan (James Badge Dale), un ranger, non veniva ucciso dal bandito Butch Cavendish (William Fichtner), al centro di un intricato complotto di potere …

Nuoce alla narrazione lo stare a metà fra epicità e toni scanzonati, tanto da girare per due ore buone intorno al proprio ombelico, costituito da una serie di stramberie che non sempre riescono a trovare un minimo di coerenza stilistica e tali restano sino alla fine, vedi il personaggio di Red Harrington con gamba d’avorio “assassina” interpretato da Helena Bonham Carter.
Tra dialoghi non proprio memorabili, qualche vuoto e troppe lungaggini (la nascita dell’eroe ha una gestazione di circa un’ora, altri trenta minuti sono incentrati sulla genesi di Tonto), The Lone Ranger offre una serie di quadri alternativamente validi ma non riesce a miscelare adeguatamente ironia, dramma e senso dell’avventura.

Non bastano però a conferire una validità complessiva al film, per quanto a tratti pienamente godibile, né giovano al riguardo il gigioneggiare di Depp, un villain da cartolina illustrata “benvenuti nel vecchio West” offerto da Fichtner o l’ambiguità sottilmente politica resa con un certo manierismo da Tom Wilkinson nei panni di Latham Cole, l’ideatore del progetto ferrovia volto ad unire materialmente il paese.
Hammer rende bene l’idea di eroe controvoglia, ma l’approfondimento del personaggio appare sacrificato sull’altare Depp, vero protagonista, nel bene e nel male. Menzione speciale per Silver, magnifico cavallo albino dotato di una personalità tutta sua, funzionale aura divina e zoccoli ben saldi sulla terra.
Nell’indecisione fra realtà e leggenda prevale la fantasia di ciascuno, espressa al livello più puro, bambino o adulto tornato tale, come sembra voler suggerire il finale, quell’universo lontano dove eroi come Lone Ranger possono cavalcare indomiti e perpetrare le loro gesta, lontani dal selvaggio franchising, stagliandosi sul tramonto di una cristallina incolumità, propria di un mondo dove un duello al sole, un certo romanticismo e i mai domi ideali di lealtà e giustizia, esprimono ancora la loro valenza ed originaria purezza. Hi-yo Silver! Away!





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