
Il manifesto cinematografico è stato fin dalle origini, ancora prima del trailer o di altri filmati promozionali, il principale mezzo informativo relativo all’uscita di un film, idoneo a trasmettere anche una certa emozionalità, travalicando quindi la mera funzione “di servizio”, riuscendo a riportare attraverso la riproduzione di un immagine lo stesso linguaggio da “macchina dei sogni” proprio della Settima Arte. Quanto scritto restituisce alla memoria un periodo in cui le case di produzione, ma in particolare quelle distributrici, cui spettava l’approvazione finale, commissionavano la realizzazione del manifesto ad un cartellonista, offrendo il destro ad un particolare e suggestivo incontro tra grafica e pittura: quadri e disegni realizzati a mano, prima della stampa della locandina vera e propria, assecondavano così un senso ed una dimensione artigianale, almeno fino agli anni ’70, quando inizierà a prendere piede uno stile più vincolato al marketing.

Una necessaria premessa per ricordare la scomparsa del pittore e cartellonista Silvano Campeggi, avvenuta ieri, mercoledì 29 agosto, a Firenze, città dove era nato nel 1923, la cui fama internazionale è dovuta alla collaborazione con le principali major hollywoodiane, a partire dalla Metro-Goldwyn-Mayer, che lo contattò per realizzare il manifesto del film Via col vento (Victor Fleming, 1939), al quale seguiranno oltre 3000 lavori, sia per la per la MGM che per altre case, Warner Brothers, Paramount, Universal, Columbia Pictures, United Artists, RKO, Twentieth Century Fox. Grazie all’attività del padre, tipografo e stampatore, Campeggi iniziò presto ad appassionarsi alla grafica e al design, frequentando quindi l’Istituto D’Arte di Porta Romana a Firenze, per poi trasferirsi a Roma dopo la II Guerra Mondiale, dove iniziò ad interessarsi alla cartellonistica cinematografica, realizzando il suo primo manifesto nel 1946, per il film Aquila nera, diretto da Riccardo Freda.
I manifesti dipinti da Nano, come era soprannominato Campeggi, attivo nel campo cinematografico fino agli anni ’70 quando, ritornato nella sua città natale, rivolse il suo talento in altri settori, sono unanimemente considerati delle vere e proprie opere d’arte: osservando i suoi lavori, dal citato Via col vento a Colazione da Tiffany, passando per altri famosi titoli (Cantando sotto la pioggia, Un americano a Parigi, West Side Story, La gatta sul tetto che scotta, tra gli altri), è possibile percepire tanto la concretezza intuitiva del genio (la locandina di Gigi, 1958, Vincente Minnelli, dove la prima i viene sostituita dal ritratto del volto della protagonista, Leslie Caron, che fa l’occhiolino), quanto l’irruenza immaginifica ed onirica della visione cinematografica (i quattro cavalli bianchi su sfondo rosso nella locandina di Ben Hur, William Wyler, 1959, ad esempio).
