
Ci lascia Bernardo Bertolucci (Parma, 1941), morto oggi, lunedì 26 novembre, a Roma; uno dei nostri autori più lucidi e di ampio respiro, capace di suscitare consensi anche a livello internazionale, pur a costo di qualche divagazione o compromesso lungo il cammino, espressione, sempre e comunque, di un cinema profondamente moderno, libero da convenzioni tanto nell’assecondare lo sviluppo narrativo, quanto nell’elaborazione formale della resa visiva, quest’ultima anche influenzata da stilemi pittorici.
Notevole, inoltre, la capacità di coniugare, all’interno di una rigorosa messa in scena, soggettività ed oggettività, per un compiuto e personale percorso creativo, idoneo a comprendere, a volte, una concreta spettacolarità (The Last Emperor, L’ultimo imperatore, 1987, 9 Oscar, fra cui quello per la Miglior Regia).

L’obiettivo della macchina da presa di Bertolucci è dunque riuscito a catturare con vivida espressività sia la psicologia degli individui, sia la loro proiezione sociale (Prima della rivoluzione, 1964), offrendo un’interpretazione della Storia volta ad assecondare toni elegiaci e il gusto della grandiosa raffigurazione. Ancora 15enne Bertolucci girò due corti, La teleferica e Morte di un maiale, però, una volta trasferitosi a Roma con la propria famiglia, sembrava invece intenzionato a ricalcare le orme paterne, il poeta e critico letterario Attilio, iscrivendosi appunto alla facoltà di Lettere Moderne e dedicandosi alla poesia, vincendo nel ’62 il Premio Viareggio Opera Prima con In cerca del mistero. Infine prevalse la passione per la settima arte, probabilmente in quanto avvertì l’esigenza di visualizzare in immagini le sue istanze poetiche, esordendo nel 1962 con La commare secca, tratto da un soggetto di Pier Paolo Pasolini e sceneggiato insieme a Sergio Citti.

Due anni più tardi ecco il citato Prima della rivoluzione, influenzato dal punto di vista narrativo dagli stilemi dei romanzi ottocenteschi (La Certosa di Parma, Stendhal) e figurativamente da quelli propri della Nouvelle Vague, ma capace di esprimere già una potenzialità espressiva del tutto personale, che troverà strada, mai definitiva vista l’inclinazione ad assecondare ogni possibile innovazione, nelle opere successive. Fra queste si possono precipuamente ricordare, “saltando” fra i vari titoli, La strategia del ragno, 1970, Il conformista, stesso anno, ispirato l’uno da un racconto di J.L. Borges, l’altro tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, Ultimo tango a Parigi, 1972, che consegnò Bertolucci alla notorietà del grande pubblico, film crepuscolare e disperatamente erotico, sul quale, come è noto, si scagliarono pesantemente i dardi della censura.

Superbo, poi, Novecento, Atto I e II, 1976, che ripercorre con toni poetici ed epici al contempo, contaminati però da una certa rigidità ideologica, la storia d’Italia dalla fine dell’Ottocento alla caduta del regime fascista, fra lotte contadine e il passaggio all’inedita realtà industriale, avvalendosi di un cast internazionale (Robert De Niro, Gerard Depardieu, Burt Lancaster, Dominique Sanda, tra gli altri). Da menzionare anche La luna, 1979, e La tragedia di un uomo ridicolo, 1981, che affrontano tematiche legate alla complessità dei rapporti sociali sul finire degli anni ’70 e l’approssimarsi del decennio successivo. Proprio verso la conclusione degli anni ’80 Bertolucci abbandonò il descritto connubio fra storie intimistiche e realtà storico-sociale, declinando la propria autorialità all’interno di produzioni internazionali e dando vita a quella che è stata definita La trilogia dell’altrove:The Last Emperor, 1987, The Sheltering Sky (Il tè nel deserto, 1990, dal romanzo di Paul Bowles), Little Buddha, 1993.

Intimismo accentuato ed attenzione a tematiche sociali trovarono nuovamente spazio poi nei successivi Io ballo da sola (Stealing Beauty, 1996), L’assedio (Besieged, 1998), delineando tematiche psicologiche relative all’identità individuale, il citazionista, dal punto di vista cinematografico, The Dreamers, 2003, basato sul racconto The Holy Innocents di Gilbert Adair, autore anche della sceneggiatura, Io e te, 2012, sua ultima realizzazione. Bertolucci, insieme a vari riconoscimenti nazionali ed internazionali, ha conseguito nel 2007 il Leone d’oro alla carriera alla 64ma Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e nel 2011 la Palma d’Oro onoraria al 64mo Festival di Cannes. A seguire, una breve recensione del film d’esordio di Bertolucci, La commare secca.
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Roma, anni ’60, nei pressi di un parco, sul greto del fiume Tevere, viene ritrovato il cadavere di una prostituta; la Polizia convoca per l’interrogatorio quanti sono stati visti passare intorno al luogo del delitto la sera precedente: il “pischello” Luciano detto “Canticchia” (Francesco Ruiu); “Califfo” (Alfredo Leggi), pregiudicato mantenuto dalla sua compagna; Teodoro (Allen Midgette), giovane calabrese di leva; Natalino (Renato Troiani) tipo stravagante, che respinge le accuse, rivolgendole invece ad altri due ragazzi che ha visto gironzolare nel parco; ognuno di loro nel raccontare la propria giornata delinea una personale verità, non corrispondente alla realtà dei fatti…

La commare secca, primo lungometraggio di Bernardo Bertolucci, diretto sulla base di un soggetto di Pier Paolo Pasolini e sceneggiato dallo stesso regista insieme a Sergio Citti, venne presentato nella Sezione Informativa della 23ma Mostra Internazionale Cinematografica di Venezia non entusiasmando particolarmente la critica, la quale lo tacciò come “opera manieristica”, “un semplice esercizio di stile”: vista oggi, pur percependo la mancanza di quella progressiva e concreta connotazione personale delle successive realizzazioni, la pellicola riesce ad emanare un certo fascino per la coesistenza di due anime contrapposte, due diverse modalità di affrontare la vita e di concepire il mezzo cinematografico. In un contesto estremamente realistico, con attori non professionisti, dove i protagonisti sono i diseredati, “gli ultimi”, i componenti di quel sottoproletariato urbano delle borgate romane, il mondo a parte cantato da Pasolini, Bertolucci, proveniente da una diversa realtà, alla partecipazione diretta sostituisce uno sguardo più astratto, preferendo ai primi piani frontali o al susseguirsi scomposto di campi lunghi e controcampi, con minimi movimenti della macchina da presa, l’estrema mobilità di quest’ultima.
Seguendo una certa stilizzazione propria del cinema francese, Bertolucci riesce a sottolineare, in un raffinato intarsio d’immagini, essenzialmente il fluire del tempo, il susseguirsi delle ore in un giorno qualunque, l’inconcludenza delle azioni dei vari personaggi, unendo poesia e disincanto. Nell’ineluttabilità del destino s’impone la presenza della morte, perdita di una primigenia innocenza e prevalere della materialità sulla spiritualità, sublimata nel titolo, derivante da un sonetto di Gioacchino Belli, citato nel finale (…e già la Commaraccia secca de strada Giulia arza er rampino). La costruzione del racconto, riecheggiante Rashomon di Kurosawa, nel contrasto tra quanto narrato e ciò che vediamo essere realmente accaduto, procede più che tramite dei veri e propri flashback, per blocchi digressivi, che andranno a riunirsi in conclusione, sino alla bella scena del ballo, che sarà ripresa dal Maestro in alcune delle più note opere successive.
L’ha ribloggato su Lumière e i suoi fratelli.
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