Seul, Corea del Sud, tempi nostri. All’interno di uno squallido scantinato, “dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”*, a parte una finestrella affacciata su di un vicolo, vive la famiglia Kim: papà Ki-Taek (Song Kang-ho), che ha alle spalle tutta una serie di scelte sbagliate, mamma Chung-Sook (Chang Hyae Jin), ex campionessa di atletica leggera (ha conseguito la medaglia nazionale nel lancio del martello), il primogenito Ki-woo (Choi Woo-Shik), che ha fallito per quattro volte i test di accesso all’università, ed infine la figlia Ki-Jung (Park So-Dam), cui piacerebbe iscriversi alla Scuola d’Arte, ma non possiede i soldi necessari per frequentare i corsi preparatori.
Tutti disoccupati, tirano a campare con lavori occasionali, per esempio confezionare i cartoni per la pizza d’asporto, attività svolta senza particolare impegno. Una sera i Kim ricevono una visita, un amico di Ki-woo, Min Hyuk, porta in dono una pietra proveniente dalla collezione del nonno, che dovrebbe recar loro fortuna e prosperità.
E le premesse al riguardo sembrano confermare tale ipotesi, visto che il giovane chiede a Ki-woo di sostituirlo nelle lezioni private d’inglese che andrebbero ad interessare la liceale Da-Hye (Jung Ziso), figlia di Mr. Park (Lee Sun Kyun), amministratore delegato di una ditta d’informatica, e di Mrs. Yeon-Kio (Cho Yeo Jeong), la quale si occupa invece dell’amministrazione domestica, rivolgendo le sue attenzioni in particolare all’altro figlio, il piccolo Da-Song (Jung Hyeon Jun), i cui problemi comportamentali trovano sfogo in una sintomatica attività artistica ritenuta dalla madre esternazione di geniale creatività. Per le credenziali da esibire, nessun problema, Ki-Jung rivelerà tutta la sua sensibilità artistica con l’ausilio di Photoshop.

I Park sono una famiglia facoltosa, dimorano in una confortevole villa, disegnata da un famoso architetto, sita nella parte alta della città, con un curatissimo giardino; Ki-woo entra nelle loro grazie senza particolari problemi, anzi, è evidente la nascita di una certa simpatia con la sua allieva. Il nostro inizia allora ad elaborare un piano: se per Da-Song sarebbe salutare l’incontro con una consulente artistica, ed ovviamente Ki-Jung si palsesa quale candidata ideale a ricoprire tale ruolo, le mansioni di autista e governante potrebbero essere eseguite altrettanto bene, sempre tacendo dei rapporti familiari, da papà e mamma… Diretto dal regista coreano Bong Joon Ho, anche autore della sceneggiatura insieme ad Han Jin Won, Parasite è un’opera mirabile nel riuscire a conciliare, concretamente e con estrema raffinatezza, autorialità ed afflato popolare, imbastendo dunque una storia volta ad evidenziare, abbracciando con disinvoltura diversi generi cinematografici, la dannosa deriva del capitalismo nella società odierna.
La portata metaforica della narrazione è infatti incline a superare il particolare (la realtà sociale coreana) per assumere portata universale. Encomiabile lo studio delle inquadrature, attraverso le quali viene efficacemente visualizzato, oltre alle reazioni emotive dei vari personaggi, anche ogni particolare ambientale idoneo a far risaltare determinate situazioni o avvenimenti; da notare al riguardo come la sequenza iniziale, dove la macchina da presa si sofferma su un particolare all’interno del sudicio loculo, non trascurando di evidenziare l’unica possibilità di ricevere luce dall’esterno, lasciando intravedere un vicolo altrettanto degradato, meta di ubriachi e sporcaccioni, si riveli speculare a quella finale, dove la speranza di una rivalsa si ammanta di toni frammisti a disillusione e cinismo nel rimarcare l’immutabilità delle cose.

Bong mette in scena una situazione sociale dove la classica distinzione fra classi differenti, per condizione lavorativa e/o sociale, appare ora livellata in base alla sicumera economica garantita dal denaro in quanto tale, tanta ricchezza concentrata in poche persone ed altrettanta povertà per molte: i ricchi sembrano intenti, ostentando raffinatezze e cultura pronto uso, non solo ad accumulare ulteriori fortune ma anche a difendere quanto possiedono da qualsiasi elemento estraneo al loro mondo.
L’ ingresso è consentito solo nell’ambito di un rapporto lavorativo, limite che è bene non travalicare, anche perché costituisce la soglia di sopportabilità di quell’avvertibile tanfo proprio dell’ indigenza; i poveri possono tentare di avvicinarsi a quel mondo dorato attraverso il sotterfugio, mascherando la loro condizione, andando così a scatenare l’eventualità di un possibile conflitto non solo con le classi agiate ma soprattutto con quanti versano nelle medesime, se non peggiori, situazioni esistenziali. Occorrerà poi mettere in conto la mancanza di una qualsiasi solidarietà fra simili, altri disgraziati intenti anch’essi a lottare per accaparrarsi una fetta di personale felicità, difendendo con le unghie e con i denti quanto conquistato. Bong dà dunque avvio alle danze nelle forme di una commedia, umana, amara, quindi realista, sostenuto dalla cura profusa congiuntamente nella fotografia (Hong Kyung Pyo) e nella scenografia (Lee Ha Jun), ancora prima che dalle valide prove attoriali dell’intero cast (per espressività e rabbia silente Song Kang-ho è una spanna su tutti). Rimarca quindi la contrapposizione dei due mondi che andranno presto ad incontrarsi, separati da una ripida scalinata che dal basso porta verso l’alto, quell’Eden immacolato vero e proprio mondo a parte al cui interno non è però possibile alcuna armonia simbiotica o empatica.

La mela è già stata addentata da quanti hanno permesso che nella realtà quotidiana si potesse stagliare il mito fallace di una eguaglianza solo presunta, “tutto a disposizione di tutti”, senza però tenere conto della specificità individuale che ogni essere umano porta con sé. All’improvviso poi il registro narrativo muta, il sorriso si fa sempre più a denti stretti, i toni grotteschi si inaspriscono e volgono al thriller, sempre mantenendo una sapida orchestrazione (qui entra in gioco anche il valido montaggio, Yang Jinmo), senza alcun stridore, a parte qualche lieve cedimento della sceneggiatura. Si giunge infine a lambire le sponde dell’horror, in virtù di un’implosione, probabilmente inevitabile, per riportare tutto nell’alveo, delimitato dall’indifferenza quotidiana, del livellamento sociale calcolato. Il finale del film, in apparenza aperto alla speranza, con un ultimo, beffardo, colpo di coda fa invece intuire, riporto la mia primaria sensazione, come quella che anticamente veniva definita ultima dea rappresenterà niente’altro che una mera chimera. La possibilità di studiare, di far carriera, di riscattarsi dalla miseria, la cultura quale estremo baluardo per difendersi dall’omologazione opprimente qualsiasi individualistico scatto d’orgoglio in difesa della propria personalità, si insinueranno come una tenia nella mente del giovane Ki-woo , alimentandosi ad oltranza al desco del sogno e dell’illusione.

Ma ecco che l’inquadratura di cui si è scritto ad inizio articolo, fissa sui calzini stesi ad asciugare all’interno del tugurio, quest’ultimo reso ancora più avvilente nel suo aspetto da un forte alluvione, l’obiettivo che stringe verso la solita finestrella e ci obbliga a far nostro quel consueto orizzonte in cui perdere lo sguardo verso un agognato altrove, lascia intuire come tutto resterà eguale a prima e non vi sarà alcuna ascesa verso l’agognato paradiso, bensì un continuo girovagare tra i gironi infernali delle tentazioni possibili e quelli purgatoriali di una costrittiva realtà. Chissà, forse aveva visto giusto l’irreprensibile Thomas Fairchild (John Williams), autista della facoltosa famiglia Larabee in Sabrina (Billy Wilder, 1954), importato direttamente dall’Inghilterra, insieme all’ultimo modello di Rolls – Royce, quando confidava a Linus (Humphrey Bogart), uomo d’affari primogenito dell’illustre casato, la personale visione del mondo: “Io vedo la vita come una limousine. Anche se ci viaggiamo assieme, ognuno di noi ha il proprio posto: c’è un sedile anteriore, uno posteriore e un finestrino in mezzo”.
*La città vecchia, Fabrizio De Andrè, 1966
Palma d’oro al 72mo Festival di Cannes (2019). Oscar 2020: miglior film, miglior regista, miglior film internazionale, migliore sceneggiatura originale.
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