
Da oggi, giovedì 28 maggio, è disponibile sulla piattaforma RaiPlay Bar Giuseppe, film scritto e diretto da Giulio Base, presentato nella sezione Riflessi della 14ma Festa del Cinema di Roma, la cui visione mi ha suscitato un certo entusiasmo per la riuscita attualizzazione di una storia d’accoglienza e d’amore come è certamente quella fra la giovane Maria e il falegname Giuseppe narrata nei Vangeli, avvertendo l’esigenza di riportarla appunto ai tempi nostri dove non sempre i due termini trovano adeguata concretizzazione, risolvendosi spesso in una religiosità esibita e trasformata in puro e semplice richiamo pubblicitario a proprio uso e consumo da novelli baciapile. “Gott mit uns”, Dio è con noi, recitavano le fibbie delle cinture dei soldati del Reich, Hitler lo aveva arruolato; per fortuna disertò (Enzo Biagi). Mirabile nel film l’interpretazione di Giuseppe ad opera di un misurato Ivano Marescotti, dove il silenzio, gli sguardi e i gesti valgono più di mille parole nel dare un senso ed una dimensione inedita alla quotidiana ritualità, fra risentimenti astiosi ed indifferenza, annientati però dall’operosità silente propria di chi sa adoperarsi per gli altri ancor prima che per se stesso, vedendo in loro, qualsiasi possa essere la condizione sociale o l’etnia, nient’altro che una proiezione di sé, ovvero, ricorrendo ancora una volta ai Vangeli, il proprio prossimo . Ma le curiosità che Bar Giuseppe mi ha suscitato sono state tante e quindi ho contattato il regista Giulio Base così da condividerle per l’intervista che potete leggere qui di seguito.
Ciao Giulio e benvenuto su Sunset Boulevard, grazie per la disponibilità.
Ho appena finito di vedere l’ultimo film da te scritto e diretto, Bar Giuseppe, ne sono rimasto piacevolmente colpito, credo si possa considerare un’opera necessaria, sia per il sentore di profonda umanità che aleggia intorno la narrazione, attraversata anche da toni poetici, sia per le suggestive modalità di ripresa. Il titolo, come tu stesso hai spiegato in molte interviste, andando all’etimologia aramaica sta anche a significare Figlio di Giuseppe: è possibile vedervi una rappresentazione di una necessaria rinascita di Cristo, nella forma di un riconquistato senso di fratellanza, volto alla concreta misericordia e all’accoglienza verso chi ci è prossimo?

“Non solo è possibile vedere quella rappresentazione di cui parli ma dal mio punto di vista era una delle cose auspicabili. Scusa la risposta breve ma la tua domanda è illuminante di per sé”.
Come mi era già capitato nel visionare il tuo precedente lavoro, Il banchiere anarchico, ho ravvisato in Bar Giuseppe, riporto la mia primaria sensazione, una maggiore propensione a far tuo il mezzo cinematografico, la volontà di “fare cinema per il cinema” congiunta alla necessità di dar luogo a più di una riflessione sullo stato attuale dell’odierna società. Anche in Bar Giuseppe la macchina da presa s’impossessa dei luoghi, dei personaggi, delle situazioni, creando un’atmosfera astratta, quasi sospesa (vi contribuisce pure la fotografia di Giuseppe Riccobene) ma del tutto concreta nel rendere i vari accadimenti, prediligendo le immagini, il loro intersecarsi, rispetto ai dialoghi. E’ proprio così?

“Arrivato a una certa età e avendo sperimentato quasi di tutto nel mio mestiere di ‘entertainer’ (tutta la gamma dal sublime all’osceno), mi sono detto che era giunto il momento di azzardarmi a fare le cose che piacevano anche (quando non soprattutto) a me. E io amo il cinema puro, amo i bei film d’autore, conosco piuttosto bene l’opera di registi e cineasti di alto livello, del passato e del presente, credo di sapere distinguere quale sia il cinema buono e/o bello (ciò non vuol dire che lo sappia fare). In maturità ho preso a provar più seriamente a cercare di fare ‘quel’ cinema che mi piace da spettatore e ho cominciato tentare di fidarmi un po’ di più dei miei mezzi espressivi, rischiando qualcosa. Sono lieto che ci sia qualche apprezzamento, questo mi dà lo sprone per continuare su questa strada. Quanto al linguaggio di Bar Giuseppe ogni movimento di macchina, ogni carrello, ogni ‘macchina fissa’, ogni campo lungo, ha dietro una riflessione seria, accuratissima, ponderata. Scelte che possono piacere o meno, ma che non sono improvvisate. Erano le inquadrature che volevo fare e proprio con quella luce che ho chiesto al mio fidato DOP”.
Parliamo un po’ dello stato di salute del cinema italiano: ultimamente, non so sei d’accordo, ho notato una tendenza alla riscoperta e alla valorizzazione dei generi, nella possibilità di adattarvi storie e tematiche dal differente impatto. Può rappresentare una nuova via da seguire per differenziare l’offerta ed attrarre gli spettatori alla visione?
“Sono d’accordo, c’è una grande vitalità sia nella genia di nuovi autori che nella ricerca di un cinema che vada incontro al pubblico – e in questo il genere è fondamentale”.
Ultima domanda: hai da poco concluso le riprese di un nuovo film, Un cielo stellato sopra il ghetto di Roma, la cui narrazione verte sulla storia della Shoah, ferita purtroppo sempre aperta fra calcolati oblii e revisionismi pronto uso. Puoi dare qualche anticipazione ai lettori su come hai affrontato tale tematica ?
“Come cerco di fare sempre: ho studiato, più che ho potuto”.
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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