Stati Uniti, Nevada, 1999. Lorenzo (Giampaolo Morelli) ed Elena (Andrea Dogu), diciott’anni, vengono scaricati dai compagni di viaggio in pieno deserto. Lui anima semplice, un po’ingenuo, accanito cinefilo, lei piuttosto spigliata, incline a nuove esperienze e al divertimento. Complice l’assunzione reciproca di peyote, una volta arrivati a Las Vegas, in preda all’euforia del momento, Lorenzo ed Elena si sposeranno in una delle tante cappelle private, la follia di una notte cui non dare tanto peso; infatti i due si perderanno del tutto di vista, almeno fino al momento in cui Elena, vent’anni dopo, manager affermata in una grande azienda e promotrice di un importante progetto ecosostenibile, in procinto di sposarsi col brillante imprenditore Giannandrea Bertolini (Gianmarco Tognazzi), uomo serio e premuroso, non viene informata dalla sua amica avvocato Sara (Grazia Schiavo) che dovrà provvedere immantinente all’annullamento di quel matrimonio celebrato tempo addietro in pieno trip. Non resta allora che contattare Lorenzo, ora scrittore ombra bipartisan al soldo di uomini politici, che divide l’appartamento con l’amico Lucio (Ricky Memphis), casalingo divorziato e disperato con predilezione per l’economia domestica, così da partire per Las Vegas, dove però sorgeranno varie problematiche, visto che Lorenzo ha delle pendenze con la giustizia americana (all’epoca della vacanza non aveva pagato le prestazioni del pronto soccorso, né se ne era preoccupato nel corso degli anni), per cui quello che doveva essere un semplice adempimento burocratico si trasformerà, fra un inconveniente e l’altro, in un inedito percorso di vita…
Ammetto di essermi accostato alla visione del film Divorzio a Las Vegas, diretto da Umberto Carteni (Diverso da chi?, 2008; Studio illegale, 2012) su sceneggiatura di Alessandro Pondi, Paolo Logli, Riccardo Irrera e Mauro Graiani, con una certa diffidenza, che è andata leggermente a sfumarsi nel corso della visione, pur se alla fine la sensazione dominante è stata il classico amaro in bocca per l’ennesima occasione mancata, dovendo annotare ancora una volta il tentativo non del tutto riuscito di smarcarsi dalle ormai fin troppo consuete produzioni “seriali” che caratterizzano la nostra commedia, spesso e volentieri standardizzate sul “pronto cuoci” dell’intrattenimento generalizzato, fatte salve sporadiche e benvenute eccezioni. In questo caso siamo di fronte ad una realizzazione “sanamente” leggera ma prossima ai confini dell’evanescenza, pur potendo vantare una certa cura nella messa in scena (la fotografia di Emanuele Zarlenga, per esempio, che cerca di ovviare dall’ “effetto cartolina” nel riprendere ambienti e paesaggi del Nevada, “città del vizio” compresa) ed una articolata costruzione complessiva, volta quest’ultima a sostenere una certa armonia corale nel rapporto fra personaggi principali e secondari, offrendo congruo spazio ad una serie di sottotrame nell’intreccio di situazioni che si verrà a creare lungo l’iter narrativo, contornato da una serie di gag e battute a mo’ di siparietto autoconclusivo, oltre ad essere connotate fin troppo di già visto, e che a lungo andare appesantiscono la narrazione con la loro ripetitività, in particolare mano a mano che si procede verso l’intuibile finale.
Evidente, ma già dichiarazione d’intenti, il riferimento a varie produzioni della commedia americana, dalla fine degli anni ’80 per arrivare ai giorni nostri, una sorta di cocktail “agitato, non mescolato”, in odore di didascalia, degli stilemi propri di autrici quali Nora Ephron o Nancy Meyers, senza dimenticare il Todd Phillips della trilogia di Hangover (Una notte da leoni) ma anche i nostrani fratelli Vanzina. Da questi si riprende tanto quella che, ad avviso di chi scrive, è sempre stata la loro dote migliore, ovvero la capacità di un’osservazione attenta della società e delle sue mutazioni a livello di costume, quanto la mancanza di coraggio nel far sì che situazioni comiche o comunque ironiche possano vergere verso una satira lucida e concreta, lontana da compiacimenti e carinerie, idonea anche ad esprimere un minimo di salutare cinismo nei riguardi delle varie traversie esistenziali e/o sentimentali (nella mistura di cui sopra ci sarebbe stato bene un pizzico dei Farrelly Brothers), sorte essenzialmente per non aver più seguito quell’istinto volto ad assecondare l’incedere degli eventi, affidandosi puramente e semplicemente allo scorrere della vita nel suo insieme di alti e bassi, mutamenti suggeriti o imposti, sogni lasciati troppo a lungo nei cassetti per timore che la prima luce del mattino li potesse far svanire. Invece ogni buon proposito di coniugare leggerezza ed un minimo di profondità rimane a mezz’aria, relegando Divorzio a Las Vegas tra color che stan sospesi, non riuscendo a conciliare quanto è fin troppo, malamente, esibito (le improbabili esternazioni del giudice americano interpretato da Vincent Riotta, per esempio, o le rivendicazioni dal retaggio maschilista di Lucio) con quel che, al contrario, resta volutamente sottinteso e comunque intuibile (l’evidente insoddisfazione di Elena, incline ad assecondare un’aurea mediocritas senza colpo ferire, all’insegna di un’illusoria perfezione).
La regia di Carteni è curata, attenta a valorizzare luoghi, situazioni ed interpretazioni attoriali, quest’ultime ben sostenute da un più che valido cast: Andrea Dogu, al suo esordio d’attrice, è una piacevole sorpresa, notevole presenza scenica ma ancora qualcosa da levigare nel modo di porre le battute, Morelli conferma la sua innata disinvoltura anche nell’ambito di un personaggio non propriamente inedito, l’apparente giuggiolone disadattato in letizia consapevole però di come spesso sia necessario navigare a vista per affrontare i marosi della vita, Memphis si adatta nel consueto ruolo di bamboccione stordito dagli eventi, in bilico fra la sindrome del casalingo e quella del maschio alfa, mentre la Schiavo offre un’incisiva caratterizzazione, così come Tognazzi, che ormai pare incline a rivestire i panni dell’avveduto e comprensivo ragazzone, capace di mutare un giramento di scatole in un sorriso. Divorzio a Las Vegas finisce però presto con l’incartarsi su stesso, nella descritta reiterazione pleonastica e derivativa di gag, battute, situazioni, che finiscono per prendere il sopravvento, preferendo il compiacimento ad un minimo di elaborazione; riesce qua e là a strappare il sorriso, soprattutto per la simpatia dei personaggi più che per la bontà dei dialoghi (salverei il battibecco fra Elena e Lorenzo, quando alla risposta di lei sul perché sposi Giannandrea, “mi fa sentire un’altra”, lui controbatte “allora non è l’uomo giusto”), lambendo potenzialmente ma non del tutto concretamente le sponde di un’allegra e coinvolgente spontaneità, che vorrebbe a sua volta rendere la consistenza, pur flebile, di un richiamo sincero alla genuinità primigenia di un cinema “medio” e “sanamente” popolare, ma del quale fa avvertire, ancora una volta, la mancanza.
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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