“Non dimenticherò mai il fine settimana in cui Laura morì, un sole d’argento bruciava in cielo come un’enorme lente d’ingrandimento. Non ricordo una domenica più calda. Mi sentivo come se fossi l’unico essere umano rimasto a New York. L’orribile morte di Laura mi rendeva solo …” A parlare è il giornalista Waldo Lydecker (Clifton Webb), rimembrando l’omicidio di Laura Hunt (Gene Tierney), disegnatrice pubblicitaria, donna da lui amata e protetta, considerando a tale ultimo riguardo come l’aiutò ad entrare in contatto con personaggi influenti, all’interno dell’alta società newyorkese. Laura è stata infatti rinvenuta morta nel suo lussuoso appartamento dall’affezionata cameriera Bessie (Dorothy Adams), il volto sfigurato da una fucilata; del caso se ne sta occupando l’ispettore Mark McPherson (Dana Andrews), appena entrato proprio nell’abitazione di Lydecker. L’interrogatorio rivolto a quest’uomo ormai avanti negli anni, ne mette in evidenza l’eleganza ostentata ed il malcelato snobismo, cui vanno ad aggiungersi uno sprezzante sarcasmo espresso oltremodo dai toni saccenti, a rimarcare la propria superiorità nei confronti di quanti abbia di fronte. McPherson, uomo concreto ed apparentemente tutto d’un pezzo, inizia a darsi da fare: ispeziona l’appartamento di Laura, restando ammaliato dal suo ritratto, così come da tutto ciò che viene a conoscere riguardo la defunta dalla zia Ann (Judith Anderson), da Shelby Carpenter (Vincent Price), mellifluo ed ambiguo promesso sposo di Laura e poi nuovamente da Lydeker, intento, compiaciuto, a raccontare come la conobbe e quanto si dette da fare per lei, in nome di un’amicizia che però andava sconfinando verso altri sentimenti, considerando come mal sopportasse le sue frequentazioni, dapprima con un aitante pittore e poi con il citato Shelby. Anche l’irreprensibile detective è ormai irretito dal fascino di Laura: ancora una volta si reca nel suo appartamento, osserva ogni oggetto, legge la sua corrispondenza, per poi ubriacarsi ed addormentarsi su una poltrona, sotto il ritratto dell’ uccisa, che però, all’improvviso, appare sull’uscio di casa…
Scritto da Jay Dratler, Samuel Hoffenstein, Betty Reinhardt, sulla base dell’omonimo romanzo di Vera Caspary (1942) e diretto da Otto Preminger, già produttore del film e subentrato a Rouben Mamoulian, apportando inoltre una serie di modifiche relative a scenografia, cast e fotografia, Laura è un noir tanto inquietante ed enigmatico quanto estremamente elegante e rarefatto nella messa in scena. Preminger, dopo una serie di realizzazioni trascurabili, qui delinea compiutamente determinati stilemi che diverranno una costante della sua filmografia: una ricercata teatralità, contornata da un tocco diretto ed essenziale, non scevro da una certa visionarietà, l’inclinazione a far sì che sullo sfondo narrativo vadano a stagliarsi complessi tratteggi psicologici riguardo i personaggi, nella tendenza a conferire sempre e comunque una nota del tutto personale ai generi cinematografici, mantenendosi in equilibrio tra versatilità e mestiere. Quanto scritto lo si può notare nell’opera in esame, insieme anche ad un’evidente propensione verso la critica sociale (la vacuità dell’ambiente che circonda Laura e quanti vi gravitano intorno, polvere sotto il tappeto dell’appagamento esistenziale), oltre ad avallare i toni del melodramma e di un inquieto thriller nell’offrire corporeità a contorte psicologie, andando ad intersecare malsane fissazioni ed eteree illusioni. Evidente al riguardo, già ad inizio film, la primaria contrapposizione fra il giornalista Waldo ed il detective McPherson, cui andrà ad aggiungersi in seguito l’opportunista Carpenter: Preminger visualizza tre diversi atteggiamenti maschili nei confronti di un identico fulcro di desiderio, ognuno di essi rivelatore della propensione ad idolatrare la donna desiderata quale simulacro quasi etereo, impalpabile, atto a conferire un determinato significato alla propria esistenza.
Ecco allora che per il raffinato ed altezzoso giornalista Laura va a costituire il narcisistico riflesso della propria stessa figura: lui, novello Pigmalione, ha “creato” la donna perfetta, a propria immagine e somiglianza, probabile esternazione di quella sottesa femminilità che le convenzioni sociali e l’educazione impartita impongono di tenere nascosta fra le pieghe dell’ albagia e dell’ostentata raffinatezza dei modi e la cui purezza intende quindi difendere da qualsiasi evento esterno che possa contribuire a contaminarla; per il granitico detective, invece, la donna viene a rappresentare la possibilità di mitigare la propria rudezza e dare un calcio all’amara disillusione che sembra muovere i fili del suo quotidiano arrabattarsi esistenziale, mentre per Carpenter, infine, non rappresenta altro che un opportuno tornaconto, la possibilità di un lavoro sicuro e di una sistemazione sentimentale quale paravento alle sue dissolutezze finanziarie e ai vari intrallazzi amorosi. La fotografia in bianco e nero di Joseph LaShelle, premiata con l’Oscar (il film era stato candidato anche per il miglior regista, miglior attore non protagonista, Clifton Webb, sceneggiatura non originale e per la scenografia in bianco e nero – arredamento, Lyle R. Wheeler), così come l’insinuante motivo sonoro di David Raksin, avvolgono l’oscura vicenda in un’atmosfera particolarmente morbida, coinvolgente, nel rincorrersi di tagli di luce ed ombre suggestive, sospesa fra il subliminale e l’onirico, contribuendo ad aumentare la voluta ambivalenza tra l’ambito reale e quello immaginifico, considerando poi come ogni personaggio abbia una propria verità a portata di mano e contemporaneamente qualcosa da nascondere. La suddetta ambivalenza è presente in particolare nella bellissima sequenza in cui vediamo McPherson addormentarsi in poltrona sotto il ritratto di Laura, dove solo lo stacco netto della macchina da presa lascia intuire, pur lasciando teso il filo dell’ambiguità, che il sopraggiungere di Laura non sia frutto di un sogno.
Riguardo le prove attoriali risaltano senza dubbio l’interpretazione di Webb, il quale, come già notato da molti, sembra “galleggiare” sulla scena con magistrale disinvoltura e quella della stupenda Tierney, il cui sguardo richiama tanto una corporeità vivida e pulsante quanto una resa onirica e fantasmatica, ora a riunire ora a confondere le due dimensioni già descritte di realtà ed irrealtà. Del film vennero girati due remake televisivi, nel 1955 (Laura: Portrait of Murder, diretto da John Brahm per la sceneggiatura di Mel Dinelli, Dana Wynter ad interpretare Laura, Robert Stack nei panni di McPherson e George Sanders in quelli di Lydecker) e nel 1968 (Laura, diretto da John Llewellyn Moxey e scritto da Truman Capote e Thomas Phipps, con Lee Radziwiłł nel ruolo di Laura, mentre Sanders e Stack interpretarono nuovamente Lydecker e McPherson). Il soggetto ispirò anche il film western Frontier Gambler (Sam Newfield, 1956) ed il sesto episodio, Skin Deep, 1981, della prima stagione del telefilm Magnum, PI; del 2005 è invece un remake di Bollywood intitolato Rog, diretto da Himanshu Brahmbhatt ed interpretato da Irrfan Khan ed Ilene Hamann. Un noir atipico, riprendendo quanto già scritto nel corso dell’articolo, dalla regia raffinata e rigorosa, a sostegno di una sceneggiatura che regala ottimi dialoghi, spesso pungenti ed un serpeggiante senso d’inquietudine, offrendo opportuna e concreta sostanza cinematografica a quell’irrisolvibile enigma messo in campo dal continuo fronteggiarsi di cuore e mente, citando in chiusura Charles Chaplin, interprete del clown in disarmo Calvero nel suo Limelight (Luci della ribalta, 1952).
Già pubblicato su Diari di Cineclub N.92- Marzo 2021