Roma, giorni nostri. Bruno Salvati (Kim Rossi Stuart), regista cinematografico i cui film non hanno mai riscontrato particolare successo, è in procinto di affrontare un difficile percorso esistenziale: dopo che gli è stata diagnosticata una forma di leucemia, assistito dalla tenace dottoressa Paola Bonetti (Raffaella Lebboroni), sta per sottoporsi al ciclo chemioterapico, prima che si proceda al trapianto delle cellule staminali, quale probabile garanzia di guarigione. Nella sua mente si succedono vari ricordi, da quelli più lontani, legati all’infanzia di ragazzino fragile ed insicuro, a quelli più recenti, come la separazione dalla moglie Anna (Lorenza Indovina), con la quale ha comunque mantenuto un buon rapporto e che ora gli è affettuosamente vicino, l’interazione con i figli, Adele (Fotinì Peluso), ragazza già piuttosto matura e responsabile, e Tito (Tancredi Galli), adolescente invece inquieto e problematico, sulla quale ha pesato il suo carattere scostante e volto all’egocentrismo, preoccupandosi precipuamente dello scarso riscontro incontrato dai suoi lavori, oggetto di continue dispute col produttore (Ninni Bruschetta), che gli rimprovera le difficoltà di realizzazione dovute alla scelta di attori non commerciali e la propensione ad una commedia che non sia però ridanciana. Sogna spesso la madre (Elettra Mallaby), deceduta anni addietro, che si avvicina al letto d’ospedale confortandolo con una carezza e un “andrà tutto bene”, oltre a ricordarne la sensibilità in determinati momenti della sua fanciullezza, contrariamente al padre (Giuseppe Pambieri), ora anziano dedito ai piaceri della vita, il quale gli rivelerà un segreto, doloroso, tale però da consentire a Bruno di coltivare una speranza riguardo al superamento della malattia, considerando che i suoi familiari non sono idonei al trapianto di midollo..
Film di chiusura alla XV Festa del Cinema di Roma nel 2020 ed oggetto di una distribuzione resa difficoltosa dall’incedere dell’emergenza sanitaria (inizialmente il titolo era Andrà tutto bene), Cosa sarà, regia e sceneggiatura (a quest’ultima ha collaborato anche Kim Rossi Stuart) di Francesco Bruni, che ha dedicato il film a Mattia Torre, si palesa alla visione come un’opera particolarmente riuscita, piuttosto empatica, capace di trattare la tematica della malattia con realismo ma senza indulgere in toni pietistici o ricattatori in odor di lacrima facile, bensì avallando il tumultuoso alternarsi di dramma ed ironia che è proprio dell’umana commedia di cui siamo quotidianamente protagonisti. Rende quindi palpabile tanto la sensazione di precario equilibrio su quella fune tesa che è la vita, quanto la necessità di far sì che il nostro viaggio terreno sia il più possibile improntato anche ad un leale rapporto di fiducia verso gli altri, familiari, amici, le persone che si incontrano, perché, come è espletato nella sequenza iniziale e poi completato nel corso della narrazione, un ricordo d’infanzia di Bruno, chi ti ha preso le macchinine con le quali stavi giocando non è detto che poi non torni con le sue, così da rendere il gioco più coinvolgente e levarti dalle secche del solipsismo. Si tratta poi di un film autobiografico, visto che il protagonista, interpretato da Kim Rossi Stuart con sincero trasporto immedesimativo nel renderne l’ego sconvolto dall’imprevisto ed angosciante fermo, è in realtà copia conforme del regista, ammalatosi appunto di leucemia, da cui è guarito, un uomo di 45 anni che nel relazionarsi col mondo si trincea dietro atteggiamenti ora puerili, ora improntati ad un’autoironia compiaciuta, frammista ad un certo cinismo “pratico”, stemperato tra amarezza e qualche rimpianto, quale possibile barriera protettiva.
Un lavoro di scrittura piuttosto raffinato ed una regia sensibile, misurata, spesso incisiva, in particolare nell’incastonare fra le sequenze del decorso ospedaliero, intrise di una vivida umanità, quelle relative ad avvenimenti passati e recenti, che scorrono sul filo di una pregnante malinconia, spesso all’insegna spesso di “quel che poteva essere e non è stato”, fa sì che sullo schermo si stagli un percorso di rinascita, inteso a recuperare la percezione della propria identità nei rapporti col prossimo e non solo in senso prettamente individualistico, cui danno il loro apporto precipuo le rilevanti figure femminili, vere e proprie cartine di tornasole nel far venir fuori le cialtronerie proprie dei personaggi maschili, di tutti e non solo del protagonista (vedi papà Umberto, di cui la sapida interpretazione di Pambieri attenua un certo macchiettismo di fondo, o l’adolescente Tito, teneramente confuso), dalla caparbietà della dottoressa Bonetti (interpretata dalla ex consorte di Bruni), alla dolcezza materna, appena velata da un certo sarcasmo e da un sano dileggio, espressa dalla ex moglie Anna (una magnifica Indovina), senza dimenticare la dura determinazione manifestata dalla figlia Adele (la brava Peluso), che rivendicherà comunque un sacrosanto diritto a scendere dai gradini della perfezione e lasciarsi andare all’emozionalità, anch’essa necessario slancio vitale, ma soprattutto il determinante ruolo di Fiorella, ottimamente resa da Barbara Ronchi nel rendere tangibile il senso di dolorosa solitudine e la sua battaglia per rendere concreto un quanto mai desiderato rapporto propriamente umano, nei confronti del quale nutre comunque un più che comprensibile timore. Andando a concludere, Cosa sarà avrebbe forse meritato qualche taglio qua e là, così da rendere una maggiore compattezza narrativa, nulla comunque che infici la valenza di un film ben diretto, scritto ed interpretato, dalla concreta portata catartica (la sequenza finale del viaggio in barca, metaforica e onirica) nell’offrire visualizzazione all’alternanza scomposta di gioie ed ambasce propria delle ritualità quotidiana, accettandone in toto la loro portata egualmente deflagrante e sconvolgente.