Cry Macho- Ritorno a casa

(Movieplayer)

Stati Uniti d’ America, Texas, 1979. L’anziano cowboy Mike Milo (Clint Eastwood), volto solcato dal tempo al pari dei paesaggi circostanti, passo lento e sulla schiena il peso di un incidente nel corso di un rodeo così come di altre profonde tribolazioni che la vita non gli ha certo lesinato (moglie e figlio hanno perso la vita in un sinistro stradale), è ormai prossimo ad essere licenziato dal suo datore di lavoro, Howard Polk (Dwight Yoakam), proprietario e gestore di un ranch. Quest’ultimo in passato lo ha aiutato a rimettersi sulla retta via, persa fra alcool e pasticche, ma ora sentenzia che Mike “non rappresenta più una perdita per nessuno” e la sua presenza, anche come semplice istruttore d’equitazione, è ormai da considerarsi superflua, “c’è bisogno di carne fresca”. Il nostro, con fare laconico e qualche battuta pungente, sembra accondiscendente al riguardo, probabilmente conscio di aver fatto il suo tempo, simbolo di un passato, fra solidi ideali e buoni propositi, prossimo ad estinguersi, ecco perché, un anno più tardi, proverà meraviglia nel vedere l’ex capo affidargli un delicato incarico. Dovrà recarsi a Città del Messico per rinvenire il tredicenne figlio di Howard, Rafael, Rafo (Eduardo Minett), probabilmente sarà a casa della madre Leta (Fernanda Urrejola) e ricondurlo da lui. Mike, dapprima reticente, rammentando come Howard gli abbia più volte teso la mano nei momenti difficili, finirà per accettare, ma una volta giunto a destinazione dovrà constatare che nella lussuosa dimora della donna, dove è in corso una festa, del ragazzo non vi è traccia.

Clint Eastwood e Dwight Yoakam (Movieplayer)

A dire della madre sarà certo per la strada, intento in qualche losco affare, ad esempio i combattimenti clandestini coi galli. Incurante delle minacce di Leta e di quelle dei suoi tirapiedi, Mike non solo riuscirà a rintracciare Rafo, ma arriverà anche a condividere con lui e il suo gallo Macho tutta una serie di accadimenti, la cui portata lascerà dei segni non trascurabili ad entrambi: il ragazzino comprenderà infatti cosa voglia dire essere realisticamente adulti mentre il “vecchietto”, del tutto conscio che non vi possono essere cure per la vecchiaia, valuterà come l’esistenza necessiti di alcuni accomodamenti in corso d’opera per potere essere apprezzata nella sua convulsa alternanza di gioie e dolori… Cry Macho, diretto da Clint Eastwood, presentato fuori concorso al 39mo Torino Film Festival, è un film frutto di una sceneggiatura originariamente nata dalla penna di N. Richard Nash, rifiutata due volte dalla 20th Century Fox nel corso degli anni ’70:l’autore si adoperò per rielaborarla in forma di romanzo (pubblicato nel 1975), per poi riproporre lo script primigenio, vendendolo sia alla Fox che ad altre case di produzione, prima di morire nel 2000. Dopo vari tentativi di adattamento del romanzo e proposizione di diversi attori cui destinare il ruolo principale (dallo stesso Eastwood ad Arnold Schwarzenegger, passando per Robert Mitchum, Burt Lancaster e Pierce Brosnan), si è quindi giunti all’opera in esame, che ha visto intervenire nella scrittura lo sceneggiatore Nick Schenk.

(Movieplayer)

Se proprio la sceneggiatura rappresenta, riporto la primaria sensazione avvertita in sala, il punto debole della pellicola, rivelando nel procedere della narrazione più di uno schematismo e qualche approssimazione, ritengo invece che possano trovare opportuno risalto l’immedesimazione recitativa del buon vecchio Clint e il suo stile registico: avallando una ricercata classicità nel sostenere un ritmo ponderato, si avverte la predilezione d’ inquadrature spesso indulgenti verso i campi lunghi, coadiuvato dalla nitida e luminosa fotografia di Ben Davis, rivelando poi una particolare attenzione alle interpretazioni attoriali. Ecco allora visualizzarsi una malinconica ballata, con qualche riuscito innesto ironico e autoironico, incrociando e mescolando fra loro gli stilemi di un western moderno, del road movie e soprattutto di un sentito racconto di formazione in odore di reciprocità: Rafo e Mike apprenderanno l’uno dall’altro come affrontare la quotidianità dell’esistenza nella sua interezza, guardando entrambi la vita con nuovi occhi, unico vero viaggio verso la scoperta, citando Marcel Proust.

Eduardo Minett (Movieplayer)

Se l’altrettanto granitico John Wayne nei panni del capitano Nathan ne I cavalieri del nord ovest (She Wore a Yellow Ribbon, John Ford, 1949) era solito esclamare rivolto ai suoi sottoposti Non chiedere mai scusa, è segno di debolezza! in Cry Macho Eastwood si assume invece l’onere, dalla portata non indifferente, di offrire la visione di una mutata caratterizzazione dell’archetipo da lui a lungo incarnato del maschio rude e sprezzante, espressione atavica di una forte mascolinità nel lesinare, fra l’altro, qualsivoglia cedimento verso i sentimenti: ora “l’essere uomo” va a manifestarsi, più concretamente, nel tesaurizzare le esperienze passate, nel loro insieme di positività e negatività, volgendole al futuro che resta, condividendole e confrontandole con quelle del giovane Rafo, fino a scoprire entrambi inediti aspetti della propria personalità, fra potenzialità inespresse e momenti di cui godere tuttora in pieno, in attesa del fine corsa, prendendo dalla vita quello che dà qui ed ora, mantenendo sempre e comunque vitali determinati ideali nel riuscire a gestire più di un adattamento, rinvenendo infine, fra qualche rimpianto e più di un’amarezza, l’opportuna elaborazione del proprio vissuto.

(Wired Cinema)

Probabilmente, credo che se lo augurino un po’ tutti, Cry Macho non sarà l’ultimo film dell’iconica “faccia di cuoio”, ma sicuramente è quello in cui, pur nei difetti su accennati di una scrittura che avrebbe meritato qualche approfondimento in più, “il cavaliere pallido” sembra voler stringere con ancora maggiore coerenza il cerchio di un discorso avviato compiutamente dal 2008 con Gran Torino (ma probabilmente già nel 1992 con Gli spietati, Unforgiven in originale) e proseguito film dopo film fino ad oggi, ovvero rendere edotti gli spettatori, ma anche se stesso, all’interno di un percorso metacinematografico, di come si possa cambiare restando fondamentalmente sempre fedeli alla propria condotta esistenziale, esternando coraggio ed autorevolezza anche nell’umanità rivolta alla comprensione e alla condivisione. Grazie, buon vecchio Clint.


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