Calcinculo

Diretto da Chiara Bellosi, al secondo lungometraggio di finzione dopo Palazzo di Giustizia (2019), su sceneggiatura di Maria Teresa Venditti e Luca De Bei, Calcinculo, presentato nella sezione Panorama della 72ma Berlinale, è un film che ritengo possa considerarsi emblema di un cinema che mi piace definire “resistente”, ovvero capace di narrare una storia di formazione nell’ambito di una complessa realtà adolescenziale, senza incorrere al riguardo in stereotipi o schematismi di comodo atti ad ingraziarsi gli spettatori, puntando piuttosto sulla veridicità immedesimativa dei personaggi e sul realismo delle situazioni in cui si trovano coinvolti, pur nella trasmutazione dei luoghi all’interno di una dimensione astratta, tale da rendere l’impatto, visivo e contenutistico, di una moderna fiaba, riprendendo alcune dichiarazioni dell’autrice. Ecco quindi delinearsi l’assunto di come, nella delimitazione di determinate fasi esistenziali, per poter crescere o comunque proseguire il cammino vi sia bisogno di una forte spinta, voluta, ricercata o casuale, in guisa di sprone nei riguardi di un desiderio sotteso, ovvero l’essere accettati come persona nell’esternazione della propria individualità, anelito nascosto dalle coltri della mancata accettazione di sé e del timore del giudizio altrui.

Barbara Chichiarelli e Gaia Di Pietro (foto di Simona Pampallona)

Una volta consci di aver raggiunto la percezione della propria essenza e della propria unicità in forza di una conclamata diversità a rendersi valore aggiunto e mai scriminante, occorrerà allora perseverare nel coltivare tale assunta consapevolezza, quale idonea luce a rischiarare un percorso in cui non mancheranno deviazioni improvvise dovute ad avversità o contrasti. A muovere l’iter narrativo è la quindicenne Benedetta (l’esordiente e bravissima Gaia Di Pietro), organismo e personalità in via di sviluppo fra disturbi alimentari e sovrappeso, probabili conseguenza questi ultimi di un rapporto con la madre Anna (Barbara Chichiarelli) basato sul reciproco conflitto, ma anche su di un’ispirazione emulativa nel volersi rendere, almeno fisicamente, ad immagine e somiglianza della genitrice, la quale spesso rimarca la gravidanza quale interruzione del coltivato sogno di divenire una ballerina professionista. La famiglia vede poi quali ulteriori componenti due bambine più piccole e il papà Marco (Giandomenico Cupaiuolo), lavorante nella vetreria del suocero ma con aspirazioni, represse causa necessità di sbarcare il lunario, di restauratore d’auto d’epoca, il quale intrattiene una relazione con una vicina di casa. La loro modesta abitazione è sita in periferia, ai margini di un campo incolto, dove una notte andrà a sistemarsi lo scalcinato luna park di una compagnia di giostrai.

Andrea Carpenzano e Gaia Di Pietro (foto di Simona Pampallona)

Qui Benedetta conoscerà casualmente Amanda (Andrea Carpenzano, un’interpretazione trasudante vivida umanità), transessuale, spirito libero, che adatta la realtà alle proprie regole, quelle confacenti al suo modo d’essere, alla sua essenza più intima e sentita, un incontro che, fra silenzi, sguardi ora interrogativi ora complici, la farà sentire, alla luce di alcune esperienze condivise, finalmente se stessa, accettata per quella che è, nella cornice di “una primavera che non diverrà mai estate” ma che porterà comunque inedita linfa vitale nella sua vita, tale da farle assumere coscienza delle proprie scelte, instradandola verso il sentiero di un più definito approccio esistenziale. Chiara Bellosi fa sì che la macchina da presa si “attacchi” ai personaggi, precipuamente a quello di Benedetta: l’obiettivo ci restituisce il suo sguardo verso la realtà che le sta intorno, suffragandone ogni evoluzione emozionale nell’approcciarsi ai vari accadimenti cui va incontro, riuscendo a circoscriverli fluidamente in una resa emotivamente empatica e realistica, nella trasmutazione, riprendendo quanto già scritto, dei luoghi (il film è stato girato a Roma e in Svizzera) in un mondo a parte, delimitato ulteriormente dalla fotografia di Claudio Cofrancesco e dall’impiego del tutto funzionale della colonna sonora.

(Foto di Simona Pampallona)

Non solo Benedetta, ma anche le persone che le stanno vicino hanno un male interiore che le attanaglia: se lei è in lite continua con la propria immagine, la visione che ha di sé e quella che ne possono avere gli altri, Amanda vive la costrizione in una fisicità che non le appartiene, vendendo la propria diversità quale estrema accettazione ed affermazione della propria personalità, superando la sofferenza volta ad esprimere quello che la natura preme nell’esternare; Anna soffoca a stento il rancore di un’affermazione mancata, proiettandolo sulla figlia e Marco si adatta in una dimensione che non gli appartiene, prigioniero delle sue stesse aspirazioni e dei suoi desideri. Ognuno quindi ha ricevuto tanti bei calci in culo dalla vita, quella giostra che ci rende ebbri nei suoi vorticosi giri, dove le pedate possono spingerci a raggiungere un preciso obiettivo, andando a costituire uno stimolo atto a ridestarci, incitandoci a darci da fare per divenire protagonisti della nostra esistenza, rendendoci, nel bene e nel male, finalmente edotti di un precipuo senso vitale adattato alla nostra personalità. Calcinculo, andando a concludere riportando la mia primaria impressione, ancora prima che raccontare una storia, servendosi di modalità cinematograficamente dirette ed essenziali, intende raffigurare delle istantanee di quotidiana esistenza e resistenza, nel loro sussultorio e scomposto alternarsi di gioie e dolori, rese dallo sguardo di un organismo e di una personalità in crescita, quali tappe necessarie e fondamentali per poter mantenersi in equilibrio, non senza qualche difficoltà, su quella corda tesa che è la vita.


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