Riporto di seguito le mie impressioni scaturite in seguito alla visione di alcuni film presentati nei giorni scorsi alla Festa del Cinema di Roma, la cui XVII Edizione, iniziata giovedì 13, si concluderà domenica 23 ottobre. Trattasi di tre titoli inseriti nella sezione non competitiva Freestyle, composta da venticinque opere di formato e stile liberi, dalle serie ai videoclip, dai film alla videoarte, inerenti al genere documentario o, meglio, per usare il termine che oggi va per la maggiore, al “cinema del reale”, al cui interno assume sempre più rilevanza distintiva rispetto al “cinema di finzione” la forza interpretativa dell’autore nei riguardi di quanto andrà a visualizzare nel corso della narrazione. Amate sponde, scritto e diretto da Egidio Eronico, offre un suggestivo e per certi versi straniante afflato visivo, inteso a richiamare, per stessa dichiarazione dell’ autore, gli stilemi propri di Sergej M. Ejzenstejn, volti a “far sentire le immagini e vedere la musica”: nell’assenza di qualsiasi dialogo, il susseguirsi incalzante delle immagini segue la struttura propria di una suite inglese di Bach (prologo, movimenti, uno sviluppo, due ritorni), andando quindi a visualizzare una rincorsa sinergica tra regia, fotografia (Sara Purgatorio) e motivo sonoro (Vittorio Cosma), cui il serrato montaggio (Diego Volpi) delinea la concretezza del narrato, alimentato a sua volta da una ricercato giustapporsi di parallelismi ed alternanze.
Dall’universale dello spazio infinito che tutto sovrasta e sovrintende, attraverso lo sguardo tecnico dei satelliti o, forse, di qualche misteriosa entità creatrice, nel susseguirsi sistematico dei quattro elementi costitutivi del pianeta, aria, acqua, terra e fuoco, si arriva al particolare delle italiche “amate sponde” (Vincenzo Monti), dai territori ancora incontaminati alla tradizionalità portante di antichi riti, passando per luoghi che invece l’attività umana ha sfruttato a proprio uso e consumo, ormai orfani di quel necessario rapporto paritario tra uomo e Natura. In virtù della descritta sinergia tra immagine, suono e montaggio, nel corso della narrazione si staglia dunque nitido il sentore delle contraddizioni proprie del “bel paese”, ad esempio la modernità tecnologica profusa da una certamente avanzata attività ingegneristica, cui contrapporre la cornice mefitica delle metropoli brulicanti di auto, la cementificazione selvaggia, lo squallore delle nostrane favelas periferiche spesso abbandonate a se stesse (il palermitano Quartiere Zen o il romano Corviale), “deserto delle anime” dove i bambini giocano fra i rifiuti e l’elemento umano da soggetto si tramuta in oggetto, almeno fin quando non decide di riappropriarsi comunque di quegli spazi attraverso tutta una serie di attività, culturali, ludico-ricreative o di volontariato.
Una nazione che accoglie a fatica l’eventualità della coesistenza di differenti etnie all’interno del territorio e dove la diversità (vedi il parallelismo tra messa cristiana, preghiera in moschea e celebrazione di ataviche ritualità) viene spesso ritenuta una scriminante e non quale valore aggiunto per il raggiungimento di una concreta eguaglianza. Amate sponde, andando a concludere, credo possa definirsi un suggestivo viaggio mentale perpetrato per il tramite della forza espressiva delle immagini congiunto a quella suadente della musica, richiamando la nitidezza visiva e contenutistica propria del cinema delle origini, idonea a farci avvertire la nostra condizione, nell’attualità e nell’ideale proiezione verso un futuro che ci si augura migliore. Infinito-Il mondo di Luigi Ghirri, scritto e diretto da Matteo Parisini, è una realizzazione che ritengo debba definirsi preziosa, per le modalità, visive e narrative, con le quali l’autore riesce a mettere a nudo le qualità artistiche ed umane del fotografo Luigi Ghirri (1943-1992), rifuggendo dall’oleografia biografica. Predilige piuttosto assecondare, con vivida efficacia, l’intersecarsi di materiali diversi, che andranno nel corso dell’iter narrativo a comporre un unicum variegato, a partire dagli scritti di Ghirri, interpretati dalla voce di Stefano Accorsi.
Questi ultimi vanno a palesarsi quale congruo contrappunto alle immagini (fotografie e filmati dell’artista, riprese di repertorio, il panorama emiliano) e proseguendo, non seguendo un ordine preciso ma una sorta di ideale flusso mnemonico, con le interviste rivolte ad amici e familiari (le figlie Adele e Ilaria), così come ad esperti ed artisti. Il tutto attraversato poi da un motivo sonoro incline a sostenere le immagini e conferire loro ulteriore e suggestiva dimensionalità da “quadro vivente”. Ecco allora Ghirri geometra, progettista per una società immobiliare, “marinare” il lavoro, come ricorda l’amico pittore Franco Guerzoni, per recarsi nei territori della provincia mantovana e modenese, a percepirne attraverso gli scatti insoliti, volti a ritrarre determinati luoghi, abitazioni, paesaggi, tutte le contraddizioni ma anche le potenzialità, così da delineare un senso di appartenenza al mondo, che diviene concretezza nel volgervi uno sguardo insieme primigenio ed ultimo, tale da sostanziarvi la necessarietà significante della propria esistenza, in nome di una esigenza di conoscenza che oscilla “dal microscopio al telescopio”, congrua a “tradurre ed interpretare il reale, il pensiero, la memoria, l’immaginazione”, riprendendo quanto scriveva l’artista nel commentare quella foto dell’universo scattata nel 1969 da una navicella spaziale in viaggio verso la luna, pubblicata poi su tutti i giornali: “lo spazio fra l’ infinitamente grande e l’infinitamente piccolo veniva riempito da l’ infinitamente complesso, l’uomo e la sua vita, la natura”.
Nel descritto raffinato concatenarsi di immagini, musica, voce over ed interviste, Parisini delinea con sensibilità e misura la portata innovatrice dell’opera complessiva di Ghirri, il quale, in un ben determinato periodo storico, gli anni ’70, rifugge dall’idea che per il tramite della propria attività occorra necessariamente dare adito ad una qualsivoglia presa di posizione (politica, estetica ed ideologica), mentre occorre piuttosto conferire inedita linfa vitale a quello stupore originario e puro manifestato di fronte allo scaturire delle cose, al pari di un bambino che lancia il suo primo sguardo nell’intraprendere il cammino verso il mondo che gli si presenta innanzi, “rovesciando il noto detto niente di nuovo sotto il sole”, in nome della consapevolezza che “noi siamo infinito, riuscendo a vedere ogni giorno un cielo diverso”. Life Is (Not) A Game, opera d’esordio di Antonio Valerio Spera, narra un arco temporale che va dal 2020 ad oggi, dall’incedere pandemico al deflagrare del conflitto russo-ucraino, rimarcando l’impatto sociale di determinati eventi attraverso lo sguardo della street artist Laika (anche se lei si definisce “attacchina”), mediato dall’obiettivo della macchina da presa nel dare vita ad un insolito e convincente reportage, permeato da un concreto impegno civile, da intendersi quest’ultimo nel significato di prendere umanamente consapevolezza relativamente a quelle brutture e storture sociali che interessano tanto il proprio vissuto quotidiano, quanto quello inerente ad una visione più globale dell’umanità complessivamente considerata, arrivando infine ad una personale interpretazione, destinata, in un quadro di conformistica inazione generalizzata, a generare se non propriamente interesse quantomeno curiosità, fino a suscitare un minimo di dibattito e nella speranza di scuotere più di una coscienza.
Il regista segue dunque Laika, che agisce nell’anonimato, rispettandone inclinazioni e umori, in particolare evidenziandone l’inclinazione a mediare opportunamente tra ironia sferzante e congrua capacità d’analisi, doti che conducono alla realizzazione delle sue opere, accompagnandola nelle fasi che vanno dall’ideazione alle incursioni notturne in zone di Roma quali quelle nei pressi della stazione Termini o del Quartiere Esquilino, così da individuare il posto adatto dove affiggerle, da #Jenesuispasunvirus, che invita a schierarsi con Sonia, nota ristoratrice cinese della Capitale, vittima, come l’intera comunità di appartenenza, di atti razzisti una volta venute fuori le prime notizie sul Covid 19 (“C’è in giro un’epidemia di ignoranza, dobbiamo proteggerci”) o in piena pandemia (lo sdoganamento dei commenti razzisti dal presunto porto franco dei social alla pubblica piazza, The Wall of Shame) a L’abbraccio, affisso sui muri dell’Ambasciata egiziana di Roma (Giulio Regeni abbraccia Zaki, “stavolta andrà tutto bene”), passando per le conseguenze dell’incedere pandemico (Boris Johnson e “l’immunità di gregge”). Da non dimenticare, fra l’altro, il plauso rivolto alla legalizzazione dell’aborto in Argentina, entro 14 settimane dalla gestazione, un’espressione artistica culminante nel ricevimento di Laika da parte dell’ambasciatore argentino a Roma. Il picco emotivo del documentario, punto d’incontro tra la sensibilità registica e quella espressa dall’artista, si raggiunge quando dall’irriverenza per certi versi giocosa, intesa a manifestarsi sempre e comunque nell’immediatezza e nella concretezza dell’analisi sociale, si passa ad una ancora più profonda presa di coscienza: siamo nel dicembre del 2020, Laika apprende dell’incendio, poi rivelatosi doloso, esploso nel campo profughi di Lipa, in Bosnia, e si reca sul posto per avere maggiore chiarezza dell’accaduto e sincerarsi delle condizioni di quanti vi dimoravano.
Riposta la consueta maschera in auto, gesto pregno di significato nel presentarsi da essere umano ad essere umano nel pieno rispetto delle reciproche individualità, eccola prendere contatto con quanti, fuggiti da guerre ed altre avversità, tentano di attraversare il confine croato, un difficoltoso cammino della speranza che prende il nome di “game” (al ritmo di circa sedici al mese, con altrettanti respingimenti violenti), la cui posta in palio è la vita…ma l’esistenza umana non può ridursi a un gioco crudele ed efferato, che vede fra gli ideatori quanti hanno visto il cosiddetto terzo mondo come luogo da sfruttare a danno delle popolazioni locali ed avendo quali complici la nostra ignavia ed indifferenza, anche perché una nuova guerra, dagli esiti incerti è ormai scoppiata (Life Is Not A Game si apre e si chiude con immagini girate intorno ai campi d’accoglienza allestiti lungo il confine tra Polonia ed Ucraina) e lo sguardo verso il futuro si fa sempre più sfocato, come ben rappresentato dall’ultima opera di Laika, posizionata di fronte all’Euro-Sculpture a Francoforte, un ottimetro dove è impressa in luogo delle consuete lettere dell’alfabeto la parola Future, sempre in ordine decrescente, dal titolo Can You See This?… “Voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore (…)” (Vangelo secondo Matteo, 10,13, richiamante una profezia di Isaia).
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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