C’era una volta, nell’America del 1672, quando la gente credeva ancora alle streghe, un puritano di nome Jonathan Wooley (Fredric March), il quale aveva inoltrato una serie di accuse nei confronti di Daniel (Cecil Kellaway) e Jennifer (Veronica Lake), padre e figlia, responsabili per l’appunto di stregoneria e quindi in attesa di subire la pena del rogo. Sulle loro ceneri veniva piantata una quercia, le cui radici avrebbero incatenato per sempre gli spiriti malefici, anche se la donna prima di morire si era comunque prodigata nello scagliare una maledizione sui discendenti maschi di Jonathan, così da far conoscere loro l’infelicità nel corso del congiungimento coniugale. Di secolo in secolo, 270 anni dopo, siamo nel 1942, l’ultimo rampollo di casa Wooley, Wallace (March), era ormai prossimo al matrimonio con Estelle Masterson (Susan Hayward), il cui padre JB (Robert Warwick), potente editore, sosteneva il futuro genero nella campagna elettorale per essere eletto governatore. Durante un violento temporale, un fulmine colpiva l’imponente e secolare quercia piantata dopo quel fatale rogo, rendendo così la libertà agli spiriti di Daniel e Jennifer, che, sotto forma di nuvole di fumo, iniziavano a paventare l’eventualità di tormentare nuovamente l’umanità, magari rovinando il raccolto del grano…ma tante cose erano mutate da quel lontano 1672, come i due potevano constatare nell’avvicinarsi alla dimora di Wallace, apprendendo delle imminenti nozze ed architettando quindi un piano per assicurargli tutta una serie di magagne. Si potrebbe, pensava Daniel, nel corso delle sue incursioni tra le bottiglie di alcolici, farlo innamorare perdutamente della figlia e poi piantarlo in asso, per cui si rendeva necessario far riprendere alla fanciulla forma corporea, ricorrendo al fuoco… eccolo allora pronto ad incendiare il Pilgrim Hotel, per cui Jennifer assumeva le sembianze di una affascinante donna, lunghi capelli biondi e sguardo ammaliante, salvata dalle fiamme incipienti proprio da Wallace.
Con la complicità del genitore, il quale nel frattempo aveva preso possesso del corpo di un uomo di mezza età, la conturbante streghetta dava quindi vita a tutta una serie di accadimenti a danno del nostro, fra filtri magici, omicidi, reali o che apparivano tali, sponsali andati a monte o celebrati subitamente, fino a quando l’amore, il vero amore, quel turbinante miscuglio di sensazioni scaturente da un subitaneo moto del cuore, non si palesava ben più forte di qualsiasi magia… Al suo secondo film hollywoodiano dopo The Flame of New Orleans (1941), cui seguiranno It Happened Tomorrow (1944) e And Then There Were None (1945, adattamento del romanzo giallo di Agatha Christie Ten Little Niggers, 1939, di cui riprende il titolo con cui fu edito negli Stati Uniti), René Clair, regista francese trasferitosi in America in seguito all’occupazione nazista (René Chomette all’anagrafe, 1898- 1981), con I Married a Witch rende, per il tramite di una leggiadra maestria, la plausibilità del fantastico e dell’irrazionale nell’incedere dell’ordinarietà quotidiana, rimarcandone l’inclinazione a minare, sconvolgendole, le convenzioni proprie della “buona borghesia americana”, fino a ricondurre quest’ultima ad una genuina espressione dei sentimenti e degli stati d’animo, libera da pastoie comportamentali. Autore anche della sceneggiatura insieme a Robert Pirosh e Marc Connelly, adattamento del romanzo The Passionate Witch (Thorne Smith, 1941, morto prima di completarlo, concluso poi da Norman H. Matson), cui contribuirono, non accreditati, Preston Sturges e Dalton Trumbo (i due ebbero delle divergenze artistiche fra di loro, Sturges anche con Clair, fino ad abbandonare il progetto), il cineasta transalpino suffraga una sottile ironia, resa precipuamente attraverso i dialoghi, come già notato dai recensori dell’epoca, congiunta ad un ineffabile rigore logico e formale, espresso per il tramite di una messa in scena curatissima pur nella resa quasi evanescente.
Il tutto appare infatti obbedire ai richiami di una suadente leggerezza, idonea non solo a rendere del tutto fluido l’alternarsi, in odor di reciprocità, fra reale ed irreale, ma anche a mantenere la narrazione all’interno delle classiche fila di una commedia romantica e sofisticata, dove il senso immaginifico trova plausibile albergo, generando una costante tensione nello scontro con la rituale quotidianità. Spazio dunque a un senso del fantastico da “bella fiaba”, non contaminato da possibili confluenze verso toni sinistri o deviazioni che potrebbero definirsi spirituali. Gli stilemi propri della cinematografia di Clair si rinvengono tutti, a partire dal gusto del narrare, che trova esaltazione nella concreta inventiva lasciata scorrere all’interno di un’attenta costruzione ambientale, ponendo in essere un gioco a rimpiattino tra irreale realtà e reale irrealtà, chiedo venia per il gioco di parole forse un po’ forzato, assecondando i sorprendenti colpi di scena che si susseguono scoppiettanti, ritmati da un congruo senso del paradosso ed una palpabile aura di mistero, avvalorata quest’ultima dai validi effetti speciali (Gordon Yenning), che si inseriscono con naturalezza all’interno dell’iter narrativo, dalle nuvolette di fumo vaganti, a rappresentare gli spiriti di Daniel e Jennifer, al taxi volante, passando per le scope animate quali originali mezzi di trasporto. Considerando la sopra citata attenzione ai dialoghi, assume rilievo la recitazione offerta dal valido cast attoriale, a partire dalla fascinosa Veronica Lake, con la sua iconica pettinatura peek-a-boo- bang: un’onda di capelli biondi a cascare sul lato destro del volto, celandolo in parte, che appare a suo agio nel rendere tanto una certa svagatezza quanto la celata cattiveria, destinata a mutare, del personaggio.
Bravo anche March nel ritrarre un uomo alle prese con la straordinarietà di un amore “diversamente magico”, spontaneo flusso, anche sensoriale, volto ad abbattere ipocrisie e perbenismi di facciata, tra convenienze ed “incastri sociali”, vedi i bronci capricciosi di Estelle, anche se poi a restarti impresso, almeno riporto la mia primaria sensazione, è la caratterizzazione delineata da Kellaway nei panni del maliardo Daniel, spiritello maligno e perverso, ma del tutto innocuo una volta immerso in una congrua dimensione alcolica. I Married a Witch, andando a concludere, si conferma a tutt’oggi come una pellicola dall’invidiabile scorrevolezza narrativa, ammantata di un fiabesco senso dell’arcano, congiunto, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, ad una felice ironia e ad un soave e concreto romanticismo, rendendo certo la levità quale leitmotiv dominante, senza però mai dimenticare un’accurata compostezza formale. La validità del plot verrà poi confermata da opere che vi si ispirarono, quali Bell, Book and Candle, pièce teatrale di John Van Druten del 1950, andata in scena a Broadway, dalla quale otto anni più tardi venne tratto l’omonima pellicola diretta da Richard Quine, con Kim Novak e James Stewart; Mia moglie è una strega (1980, con Eleonora Giorgi e Renato Pozzetto), che, pur se i registi Castellano e Pipolo si adoperarono per sconfessarlo, rappresenta di fatto un farsesco remake della pellicola di Clair, ma soprattutto Bewitched, serie televisiva statunitense della Screen Gems, da noi inizialmente intitolata L’adorabile strega e poi Vita da strega, originariamente trasmessa dalla ABC per otto stagioni, dal 17 settembre 1964 al 25 marzo 1972, a sua volta ispiratrice del film, identico titolo, diretto da Nora Ephron nel 2005, protagonista Nicole Kidman.
Pubblicato su Diari di Cineclub N. 110-Novembre 2022