Presentato, in Concorso, al 75mo Festival di Cannes, dove ha conseguito il Premio della Giuria (ex aequo con Eo, Jerzy Skolimowski), Le otto montagne si rivela alla visione come un adattamento sostanzialmente fedele dell’omonimo romanzo scritto da Paolo Cognetti (Einaudi, 2017, vincitore nello stesso anno del Premio Strega). Ne sono rispettivamente autore ed autrice, anche relativamente alla regia, Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, che danno adito, attraverso stilemi visivamente e contenutisticamente essenziali, ad una narrazione volta ad intrecciare fra di loro, come credo notato da molti, le tematiche proprie di un racconto di formazione dai toni intimi ed esistenziali e quelle inerenti ad una solida storia di amicizia virile, pregna di intense sfumature psicologiche nel visualizzare differenti modi di approcciarsi alla vita. Precipua scelta stilistica posta in essere da Groeningen e Vandermeersch, in base alla mia primaria sensazione, è stata quella di rendere la montagna protagonista, senza però ricorrere ad oleografiche rappresentazioni, bensì incastonandone la visione nel formato 4:3, optando poi per una fotografia (Ruben Impens), intesa a rappresentare la Natura così come la descrive Bruno Guglielmina (Alessandro Borghi) in un dialogo con gli amici cittadini di Pietro Guasti (Luca Marinelli), col quale ha sviluppato un profondo legame fin da quando erano ragazzini. Si conobbero infatti in quel di Graines, Valle d’Aosta, nei pressi del Monte Rosa, nell’agosto del 1984, località dove il secondo si era recato in vacanza con la madre Francesca (Elena Lietti), mentre il padre Giovanni (Filippo Timi), ingegnere all’interno di una grande azienda torinese, li avrebbe raggiunti più tardi, dando sfogo alla sua passione per le lunghe camminate sui sentieri montuosi.
Natura da intendersi non come qualcosa di astratto, sorta d’ideale ancestrale cui aggrapparsi quale subitanea panacea ai “malesseri della vita moderna”, ma vista invece con gli occhi propri del valligiano, nella sua vivida concretezza resa dal succedersi delle stagioni, ognuna col suo aspro carico di lavori ed ambasce per chi ci vive quotidianamente a contatto e vi trae a fatica il sostentamento giornaliero, mentre i tanti sacrifici non sempre si rivelano forieri di un futuro propriamente concreto. Il costrutto filmico si alimenta di un composto intersecarsi fra riprese frontali, per lo più fisse, intensi primi piani e il ricorso funzionale ai campi lunghi, soppesando l’incedere temporale che vede nel trascorrere degli anni il cementarsi di un’amicizia anche alla luce delle personali esperienze, dal radicamento di Bruno col territorio d’origine, una volta che il padre, muratore, lo prenderà con sé per insegnargli il mestiere, impedendogli di trasferirsi a Torino per completare gli studi, dove sarebbe stato ospitato dalla famiglia Guasti, al distacco di Pietro dall’ambito familiare, il suo voler prendere le distanze dalla figura paterna, non intendendo irreggimentarsi in una grigia carriera impiegatizia, ma coltivare il sogno di diventare scrittore, anche arrabattandosi in vari lavori per mantenersi, fino al girovagare per il Nepal, nell’inquieta ricerca di sicurezza e pace interiore. Il legame del nostro con Graines andrà però a rinnovarsi alla morte del padre, in virtù di un inedito lascito testamentario, una baita diroccata che rimetterà su grazie all’intervento di Bruno. L’amico infatti lo “assumerà” come manovale, intendendo dare seguito alle volontà di Giovanni, col quale aveva d’altra parte stretto un particolare rapporto una volta che Pietro se ne era andato via.
Realisticamente rese da Borghi e Marinelli nella rappresentazione di un’amicizia che vive di gesti concreti, poche parole,, minimi slanci affettivi, le figure di Bruno e Pietro si stagliano ruvidamente sullo schermo così come sulla pagina scritta, una schiva rivelazione dei rispettivi caratteri, sostanzialmente simili ma diversi nell’esprimere l’adattamento agli alti e bassi del personale incedere esistenziale: il primo è come l’albero che, sradicato dal luogo in cui è nato e cresciuto, in apparenza ostile al suo ulteriore sviluppo, trapiantato in un sito ritenuto al riguardo più favorevole andrà incontro ad una crescita stentata; il secondo, invece, è colui che ricerca freneticamente un punto di riferimento definitivamente stabile, ma, pur individuandolo, avverte la necessità di muoversi costantemente, rinvenendo un senso satisfattivo al proprio esistere ogni volta in un luogo diverso. Per Pietro, in fondo, è in quanto descritto che, probabilmente, può rinvenirsi il centro del mondo, quel Monte Sumeru prospettato da una leggenda nepalese, circondato da otto mari e otto montagne, in quanto confacente alle proprie prospettive, non così radicali e forti come quegli ideali intorno ai quali Bruno ha invece costruito il personale fulcro vitale.
Le otto montagne, andando a concludere, può considerarsi un film insolito nell’ambito dell’attuale proposta cinematografica: asseconda, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, un ritmo ponderato ed un’atmosfera rarefatta, in totale sintonia quindi con le montagne valdostane, si anima con lo schietto calore esternato dalle interazioni fra i due protagonisti e, pur con qualche cedimento verso il finale, credo riesca a conferire ulteriore sostanza a quanto emerge dal bel libro di Cognetti, ovvero l’idea che la vetta più alta conquistabile nel corso del comune cammino terreno, sia restando fermi in un determinato posto, ma sempre mantenendosi attivi, sia girovagando in lungo e in largo alla ricerca di un “centro di gravità permanente”, citando Battiato, possa essere ben rappresentata dalla fedeltà alle proprie idee e dal riuscire a generare e rafforzare nel tempo un rapporto umano che possa effettivamente definirsi tale, tra accettazione reciproca e condivisione partecipe.