1933-2023, King Kong e i suoi primi novant’anni

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(IMDb)

New York, anni Trenta. Il regista indipendente Carl Denham (Robert Armstrong), autore di documentari baciati dal successo, ha in mente di dar vita ad una produzione inedita e spettacolare, che avrà quale scenario un’isola misteriosa, a est di Sumatra, la cui rotta non è segnata dalle mappe. Dai racconti di alcuni marinai si sa solo che su di essa sorge una grande montagna a forma di teschio, separata dal villaggio dei nativi da un gigantesco steccato, edificato a quanto pare in guisa d’indispensabile difesa “per qualcosa che essi temono”, una creatura leggendaria chiamata Kong. Ormai in procinto di salpare, al nostro manca però un’attrice che possa ricoprire il ruolo della Bella da contrapporre, nelle riprese che andrà a girare, alla citata Bestia: la rinverrà nei bassifondi cittadini, una ragazza, Ann Darrow (Fay Wray), che sembra possedere il necessario physique du role nonostante la poca esperienza ed ora sia allo stremo, tanto da essere costretta a rubare per potersi sfamare. L’arrivo nei pressi dell’isola, avvolta nella nebbia, si rivela foriero d’inquietudine, anche perché risuonano minacciosi gli echi dei tamburi: come avranno modo di appurare una volta approdati, è in corso una sorta di cerimonia votiva, offrire una giovane donna in sposa a Kong, ritenuto dagli isolani loro sovrano. Ritornati di gran fretta sulla nave una volta notati dallo stregone del villaggio, contrariato per l’interruzione della cerimonia e che vede in Ann una “novità” da proporre al re, i componenti dell’equipaggio dovranno presto fare i conti proprio col rapimento della ragazza da parte dei nativi, fino ad addentrarsi nei meandri minacciosi della foresta dove Kong, palesatosi come un’enorme gorilla, l’ha condotta, difendendola nel percorso fino alla sua tana dall’attacco di vari animali preistorici, tra i quali un tirannosauro ed uno pterodattilo.

Robert Armstrong (Prime Video)

Sarà il marinaio Jack Driscoll (Bruce Cabot), innamorato, corrisposto, della fanciulla, dopo che buona parte dell’equipaggio è stato annientato dall’attacco dei dinosauri e gli uomini restanti, guidati da Denhan e dal comandante della nave, si sono ritirati al villaggio, a salvare Ann, inseguito da un Kong furioso che scatenerà la sua rabbia sugli abitanti, fino a rimanere stordito dal lancio delle bombe una volta giunto alla spiaggia. Denhan intende approfittarne, infatti riuscirà a farlo trasportare sull’imbarcazione, così da poterlo esibire, incatenato, come l’ottava meraviglia del mondo all’interno di un teatro newyorchese. Ma, innervosito dal flash delle macchine fotografiche, Kong inferocito fugge e semina il panico nella metropoli, per poi ritrovare Ann e portarla con sé in cima all’Empire State Building. Qui, colpito a morte dalle mitragliatrici dei biplani dell’aviazione, si lascerà cadere al suolo, non prima di aver deposto la donna, suo impossibile amore, su un cornicione e datale un ultimo sguardo: la Bella ha sconfitto la Bestia. Giunto al 90mo genetliaco, il primo, originale, King Kong mantiene intatta, almeno a parere dello scrivente, la meritata fama di cult movie, conquistata sul campo di generazione in generazione, a partire dall’intrigante narrazione in sé e per sé considerata, che coniuga efficacemente avventura, senso del mistero, romanticismo, ma anche un’aura sottilmente onirica di ferino erotismo, che certo attinge, lo si esplicita più volte nel corso del film, al mito de la Bella e la Bestia, consentendo inoltre, volendo, di prendere spunto dal racconto per dare adito ad ulteriori tematiche.

Fay Wray e Bruce Cabot (Filmbieb)

Ecco allora l’implosione della bestialità primordiale in contrapposizione alle costumanze morali e sociali proprie degli Stati Uniti negli anni ’30, attraversati dallo spettro della Grande Depressione e già inclini ad interrogarsi sugli sviluppi, non arrecanti solo vantaggi, inerenti ad un progresso non sempre concretamente evolutivo, nel cui ambito tutto può essere ridotto all’idea proficua del business. L’intervento umano nella veste di opportunista profittatore va poi a scompigliare un naturale ordine, per quanto primitivo, all’interno di una popolazione sconosciuta, per giungere ad uno scontro tra Natura e modernità nello scenario del cosiddetto consesso civile, fino a quando la ferinità primigenia non sarà ammansita ed annientata in virtù del suo stesso consapevole sacrificio, trasmutato alla luce della malia propria di una Bellezza congrua livellatrice. Non è poi certo trascurabile l’apporto innovativo dei sorprendenti, per l’epoca, effetti speciali, che oggi magari faranno sorridere, ma la cui rimarchevole e suggestiva mescolanza tra creatività ed artigianalità non può che suggerire un nitido trait d’union con l’effettistica attuale, a volte fredda nella sua rigida e conclamata perfezione, ma pur sempre diretta discendente di quell’originario intreccio tra stop-motion, retroproiezione, matt painting e l’impiego di miniature nel riprodurre i vari “mostri”, apportatore di magnetica forza espressiva: scrivo ciò non per inoltrare una nostalgica difesa ad oltranza dell’ingenuità degli esordi, o per un ossequioso rispetto storico, bensì, più semplicemente, perché mi piace continuare a credere, coltivando l’eterno fanciullino, alla magia di un cinema volto più che a nascondere i suoi trucchi e renderli realistici, a palesarli in modo evidente, in un continuo gioco di affabulazione con gli spettatori.

Fay Wray (Corriere della Sera)

Lo scimmione protagonista, nella sua resa filmica di un altezza variabile tra i cinque e gli otto metri (a seconda dell’ambiente col quale si trovava ad interagire, la giungla natale o quella urbana, così da risaltare, in tale ultimo caso, nel groviglio dei grattacieli), nella realtà vedeva all’opera quattro differenti modelli di 45 cm circa (su ideazione e disegno, come quello delle altre creature, di Marcel Delgado, ispirandosi in particolare ai lavori figurativi di Charles R. Knight), costituiti da uno scheletro d’acciaio ricoperto di lattice, gommapiuma e pelo di coniglio. Ognuno di essi venne usato quindi in differenti sequenze, fotografati immagine dopo immagine da Willis O’Brien e la sua equipe, ogni volta in una posizione diversa, in modo da riprodurne il movimento. Si spiega così, ad un occhio attento, il mutare dei lineamenti del muso o della lunghezza degli arti superiori. Vennero anche messe in opera ulteriori creazioni a grandezza naturale per le riprese in primo piano, dal busto di Kong con tutta una serie di meccanismi all’interno, azionati da tre uomini, idonei a riprodurne le espressioni, il movimento degli occhi, l’apertura della bocca, alla ricostruzione della mano destra, articolata o meno, fino alla gamba, non dotata di movimento, che viene ripresa in primo piano quando il gorilla va a calpestare il malcapitato di turno. Questa ed altre sequenze (ad esempio il brontosauro che si ciba di un marinaio rifugiatosi su di un albero, Kong che “sbuccia” i vestiti di Ann e ne annusa l’odore dopo aver passato il dito sulla sua pelle, una donna lasciata cadere nel vuoto dall’alto di un grattacielo, una volta che il nostro si è sincerato che non si tratta dell’amata), subirono dei tagli nel corso delle varie riedizioni, per poi essere recuperate nel 1969, quando si rinvenne una loro stampa in 16mm, così da consentirne il reinserimento, fino all’ultimo restauro del 2005 ad opera della Warner Bros. .

(IMDb)

Preso dall’entusiasmo nello scrivere di uno tra i miei film preferiti, ho dimenticato di citare gli autori della storia, che parte da un’intuizione di uno dei registi, Merian C. Cooper, reduce da una spedizione in una piccola isola dell’Estremo Oriente, dalla quale aveva portato negli Stati Uniti il drago di Komodo, allora il più grande rettile rinvenibile. Andò quindi a sostituire quest’ultimo con il gorilla, animale che fin da quando era bambino suscitava in lui un grande fascino. Il soggetto originale, stando ad alcuni fonti, è da attribuirsi allo scrittore Edward Wallace, il quale però morì nel corso delle riprese, lasciando incerto il suo effettivo apporto, per cui la sceneggiatura definitiva venne attribuita soltanto al duo James Ashmore Creelman e Ruth Rose, moglie dell’altro cineasta che firmò la regia della pellicola, E.B. Schoedsak, conferendovi un certo piglio documentaristico, avallando comunque il fascino ambiguamente onirico proprio dell’iter narrativo, che, così come l’ Isola del Teschio emergente dalle nebbie, appare visualizzare realisticamente un sogno, dalle connotazioni metaforiche, di cui si è già scritto nel corso dell’articolo. Da rammentare anche la fotografia in bianco e nero (Eddie Linden, J.O. Taylor, Vernon L. Walker, Kenneth Peach), che risalta la cura profusa nelle scenografie (Carroll Clark, Alfred Herman, Thomas Little, Ray Moyer), l’insinuante colonna sonora di Max Steiner nel conferire drammaticità e afflato romantico, e gli effetti sonori (Murray Spivack), con la voce di Kong creata registrando dal vivo i ruggiti di vari felini, per poi riprodurli al contrario sulla pellicola. Sequel e remake, anche apocrifi, non si contano, a partire da Son of Kong, 1934, regia del solo Schoedsak, al valido King Kong del 1976 voluto da Dino De Laurentiis, regia di John Guillermin, con i “meccanotroni”, poi animatroni, di Carlo Rambaldi, integrazione tra meccanica ed elettronica, a dar vita ad una creatura a grandezza naturale, anche se usata in poche sequenze (spesso Kong, nelle inquadrature a figura intera, era impersonato dal mitico Rick Baker), per la cui creazione gli venne attribuito l’Oscar Special Achievement Award.

(Coming Soon)

Di questo remake ne venne poi girato, sempre Guillermin alla regia e Rambaldi agli effetti speciali, un melenso, inutile, seguito nel 1986 (King Kong Lives), mentre nel 2005 la storia originaria venne ripresa validamente da Peter Jackson, con Andy Serkis a rendere in motion capture fattezze e movimenti della Bestia, ora un più realistico gorilla, che a partire dal 2017 e fino al 2021 entrerà a far parte del MonsterVerse nato sotto l’egida collaborativa di Warner Bros. e Legendary Pictures (Kong: Skull Island, Jordan Vogt Roberts, 2017; Godzilla II – King of the Monsters, Michael Daugherty, 2019; Godzilla vs. Kong, Adam Wingard, 2021), in nome di una moderna spettacolarità, matura e tutto sommato avvincente, che comunque attinge sempre da un passato difficile da dimenticare, non solo nell’ambito delle produzioni americane (da ricordare, nella loro beata ma comunque fascinosa ingenuità, anche a livello narrativo, i lavori di Ishiro Honda Kingu Kongu tai Gojira, 1962, e Kingu Kongu no Gyakushū , 1967), per quel citato afflato complice che si viene a creare con gli spettatori tra linearità narrativa e ammaliante creatività dal retrogusto artigianale a restituire la magia propria del mezzo cinematografico. In chiusura, una curiosità da buon cinefilo: nel film Ciao maschio, diretto da Marco Ferreri nel 1978, in una sequenza si vede Luigi Nocello (Marcello Mastroianni), italiano residente a New York, notare, nel corso di una passeggiata lungo il fiume Hudson, un piccolo scimpanzé, che si aggira intorno il cadavere di King Kong, il quale verrà poi adottato dall’amico Gérard LaFayette (Gérard Depardieu), che gli darà nome Cornelio, considerandolo al pari di un figlio. Ma questa, a testimonianza di quanto il mito del primitivo scimmione sia entrato a più livelli a far parte dell’immaginario collettivo, è certamente un’altra storia, come si suole dire, e magari, amiche lettrici e amici lettori, si avrà modo di scriverne alla prossima occasione.


4 risposte a "1933-2023, King Kong e i suoi primi novant’anni"

    1. Credo sia il MIC, Museo Interattivo del Cinema, dove è in corso una mostra dedicata a Rambaldi, “papá” del King Kong degli anni Settanta.

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