Mesi addietro, il 7 gennaio, nel leggere la notizia della morte dell’attore Adam Rich, noto soprattutto per il ruolo del piccolo Nicholas, 7 anni, ultimogenito della famiglia Bradford nella serie televisiva intitolata in originale Eight is Enough (1977-1981, 112 episodi andati in onda nell’arco di 5 stagioni), ritiratosi dalle scene nel 1993 dopo una serie d’ interpretazioni per lo più in molti telefilm ed essere incorso in varie dipendenze, riflettevo sul destino degli “attori bambini”. Mi chiedevo in particolare quanti fra loro avessero proseguito lungo la strada tracciata, dalla consapevolezza partecipe o dal caso, e quanti, invece, si fossero persi lungo il cammino, andando ad imboccare determinate variazioni che ai loro occhi potevano apparire idonee a colmare sia il rapido incedere sia l’altrettanto repentino crollo di una improvvisa popolarità. Riflessioni quelle finora descritte che mi hanno accompagnato nel corso della visione di Noi ce la siamo cavata, docufilm presentato, fuori concorso, al 40mo Torino Film Festival (Sezione Ritratti e paesaggi) e diretto da Giuseppe Marco Albano, autore della sceneggiatura insieme ad Andrej Longo e Adriano Pantaleo, quest’ultimo anche protagonista nel rivestire i panni di un insolito Virgilio, valida guida a condurci lungo i gironi della memoria fino a giungere a quel fatidico 1992, anno d’uscita di Io speriamo che me la cavo, quando, settenne, si ritrovò, insieme ad altri coetanei, nel cast del citato film, libero adattamento dell’omonimo libro di Marcello D’Orta (1990) ad opera di Alessandro Bencivenni, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Domenico Saverni e Lina Wertmüller, regista della pellicola.
Ecco quindi Pantaleo, oggi affermato interprete, dirigere la riunione dei suoi “compagni di classe”, gli alunni, classe III B, della scuola elementare di Corzano, paese immaginario in luogo dell’originario Arzano. Infatti, considerando come, in base alle dichiarazioni del produttore Ciro Ippolito, il sindaco del luogo temesse “una cattiva pubblicità”, le riprese videro quale principale location il borgo antico della città di Taranto, mentre per la regia si pensò originariamente a Federico Fellini, che però intendeva ricostruire l’ambientazione a Cinecittà, comportando maggiori spese rispetto al budget previsto. Fra i candidati anche Francesco Rosi, il quale, probabilmente, avrebbe conferito al film una caratterizzazione meno favolistica, per quanto sempre calata nel reale. Mario Bianco (Nicola), Pierfrancesco Borruto (Peppiniello), Annarita D’Auria (Lucietta), Ciro Esposito (Raffaele), Dario Esposito (Gennarino), Marinella Esposito (Rosinella), Luigi Lastorina (Totò), Carmela Pecoraro (Tommasina), Salvatore Terracciano (Salvatore), Marco Troncone (Giustino), oggi adulti impegnati tra famiglia e lavoro, con le loro dichiarazioni e l’emergere di tanti ricordi contribuiscono a creare un composito mosaico, le cui caselle sono costituite da un’accorta combinazione fra materiale di repertorio (backstage ed interviste), riprese volte all’attualità e testimonianze degli interpreti adulti tuttora viventi, tra i quali Isa Danieli (la direttrice scolastica), Gigio Morra (Mimì il custode) e Paolo Bonacelli (Ludovico Mazzullo).
Spazio ovviamente alle esternazioni di Paolo Villaggio, che nel ruolo del maestro Marco Tullio Sperelli, “spedito” al Sud causa errore burocratico (Corzano anziché Corsano, nella sua Liguria), riuscì a smarcarsi efficacemente dal consueto ruolo fantozziano, in via di sfumature recitative inedite, o comunque finora non valorizzate compiutamente, coadiuvato dalla caratterizzazione studiata in ogni particolare, fisico e psicologico, dalla Wertmüller. Da non dimenticare al riguardo quella capacità trasmutativa propria dei bambini nel ricondurre quanto li circonda, persone, ambienti, al loro sguardo, quest’ultimo attraversato ancora da una certa purezza, pur nell’inclinazione naturale a far sì che ogni loro manifestazione, di pensiero o d’azione, possa andare a costituire “tutto e il contrario di tutto”, come sottolinea la regista in un suo intervento. La “napoletanità” appare quindi vivida e pulsante in tutte le sue contraddizioni, forse orfana di un concreto futuro ma incline a cavarsela sempre, una forma particolare di speranza, adattata alla bisogna, riprendendo ancora una volta le parole della regista. Di quei ragazzini a continuare con una certa determinazione, fra sacrifici e speranze, la carriera attoriale sono stati il citato Papaleo e Ciro Esposito, ma anche gli altri se la sono cavata, per quanto alcuni di loro abbiano dovuto fare i conti con un “sistema” che prevedeva quale inquietante normalità l’arruolamento di giovani nelle fila della criminalità. Oggi, una volta fuori dal giro ed assolto il debito con la società, sulla base della loro esperienza possono comunque lanciare un ammonimento per far sì che le nuove generazioni non si lascino irretire, anche nella considerazione di come con la cosiddetta “paranza” la situazione del disagio giovanile sia divenuta ancora più grave e complessa.
Pregio precipuo di Noi ce la siamo cavata, rimarcando la sinergica combinazione fra regia e montaggio (Dario Incerti) nell’offrire un afflato piuttosto intenso e sincero, è, almeno a parere di chi scrive, in primo luogo l’evidenziare, tra dichiarazioni dirette ed indirette, il piglio energico e risoluto di una grande autrice quale è stata Lina Wertmüller, al cui ricordo il film è dedicato, al pari dell’estro registico ironico e pungente, ma sempre incline ad una certa sensibilità nel riportare una sagace ed acuta disamina delle trasformazioni in atto nella società. In secondo luogo è da lodare la capacità di mantenersi debitamente distante da un vacuo rimescolamento dei ricordi, magari impregnato della consueta “nostalgia canaglia” nel ribattere su quel che si è stati e ciò che si è divenuti. Riesce invece ad offrire una concreta visualizzazione di come si possa riuscire a far sì che le interpretazioni dei piccoli attori, conciliando il rispetto della loro indole con le necessità recitative, vadano ad inserirsi spontaneamente e senza particolari ed insistenti leziosità all’interno della narrazione filmica, coniugando marcato realismo e delicatezza poetica, dramma sociale ed ironia “naturale”. Si dà vita in tal modo ad un racconto di formazione idoneo a far convergere arte e vita lungo il binario della rituale quotidianità, permeandola, a volte, citando Shakespeare, “di quella stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”(La tempesta, Atto IV).
Pubblicato su Diari di Cineclub N. 114- Marzo 2023