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(MyMovies)

Alpi francesi, 1944. L’archeologo Indiana Jones (Harrison Ford) è prigioniero dei nazisti, dopo essersi messo sulle loro tracce per recuperare uno dei tanti oggetti trafugati, la lancia con cui il soldato romano Longino trafisse il costato di Gesù per accertarne la morte, che però, stando a quanto riferito ai suoi superiori dallo scienziato Jürgen Voller (Mads Mikkelsen), sarebbe un falso, mentre lui è in possesso di un altro manufatto, dalla potenza addirittura superiore, che farebbe certo comodo ad Hitler, l’antykythera, un’invenzione di Archimede risalente al III secolo a.C., in grado di generare dei varchi temporali.

Intanto Jones, riuscito fortuitamente a fuggire, si trova ora a bordo di un treno, carico di reperti storici vari, dove avrà modo di ricongiungersi con l’amico e collega Basil Shaw (Toby Jones), così da battagliare insieme per sottrarre il prezioso marchingegno a Jürgen.

Una volta che il convoglio verrà colpito dalle bombe alleate, il risultato della tenzone sarà che gli americani e il tedesco si ritroveranno in mano ognuno un componente dell’agognato macchinario. 3 agosto 1969: gli Stati Uniti si apprestano ad accogliere gli astronauti che, a bordo dell’Apollo 11, sono di ritorno dalla Luna.

All’interno di un modesto appartamento in quel di New York, Jones, ora anziano professore universitario, colto da pesante sonno sprofondato in poltrona dinnanzi al televisore, viene destato dall’intonazione ad alto volume di una canzone dei Beatles (Magical Mistery Tour), proveniente dall’abitazione del giovane vicino che insieme ai suoi amici sta festeggiando l’allunaggio.

Il nostro ha sulle spalle la separazione dalla moglie Marion, conseguente alla morte del figlio in Vietnam, e, confortato da una tazza di caffè solubile corretto, si accinge ad impartire l’ultima lezione ai suoi alunni, svogliati e disattenti, con l’eccezione di una ragazza, che sembra invece piuttosto preparata sulla tematica delle invenzioni di Archimede: si tratta di Helena Shaw (Phoebe Waller-Bridge), figlia di Basil e figlioccia di Jones, studentessa di archeologia interessata in particolare all’antykythera, il citato meccanismo sul quale vorrebbe incentrare la tesi di dottorato e per il quale il padre perse il lume della ragione.

Ma quanto in possesso di Jones fa gola anche al redivivo Voller, ora Dr. Shidmt collaboratore della NASA, e ai suoi scagnozzi: sarà l’inizio di tutta una serie di omicidi e inseguimenti, da New York a Tangeri, passando per Atene ed arrivando infine in Sicilia, a Siracusa…

Indiana Jones e il quadrante del destino rappresenta il quinto capitolo di una saga che prese il via nel 1981 con Raiders of the Lost Ark, Steven Spielberg alla regia su sceneggiatura di Lawrence Kasdan, mentre il soggetto vedeva la firma di George Lucas e Philip Kaufman.

Una divertente, e divertita, miscellanea delle tematiche avventurose proprie delle pellicole d’antan quali i serial cinematografici degli anni ’30 e ’40, ma anche di alcune produzioni successive (una su tutte, per stessa ammissione di Lucas, Secret of Incas, 1954, Jerry Hopper), senza dimenticare il mondo dei fumetti, per un tuttora godibile film d’avventura, forte di una ludica epicità.

Per questa nuova realizzazione, presentata in anteprima, fuori concorso, al 76mo Festival di Cannes, Spielberg e Lucas divengono produttori esecutivi, mentre dietro la macchina da presa troviamo James Mangold, anche autore dello script insieme a Jez Butterworth, John-Henry Butterworth, David Koepp, con la distribuzione affidata alla Disney, proprietaria dei diritti una volta acquisita la Lucas Film.

Uscito dalla sala, in tutta sincerità obnubilato da una narrazione che mi è parsa procedere per accumulo in quasi tre ore di proiezione, ho posto a me stesso una domanda essenziale, ovvero se e quanto mi fossi realmente divertito, lasciandomi trasportare dall’emozionalità pura e semplice.

Ebbene quest’ultima sensazione è sì scaturita, ma non certo per le tante, forse troppe, sequenze d’azione, inutilmente ipercinetiche, che mi hanno lasciato una percezione di stordente riempitivo, bensì in forza della valida recitazione di Harrison Ford.

L’attore dona al suo Indy ancora una volta quel fascino indomito espresso dal sorriso “sospeso”, che ora fa buona compagnia a malinconia e disillusione, vuoi per la piega che hanno preso gli eventi familiari, vuoi per il non riconoscersi più nell’ambito di un mondo che pare seguire tutt’altra direzione rispetto alla propria, mantenuta quest’ultima nel fermo rispetto di un personale codice comportamentale.

Ecco allora che il rinvenimento di determinati oggetti appartenenti al passato non costituisce più, almeno per chi non si è mai fatto scrupoli di sorta o per le giovani leve come Helena, Wombat, Shaw, una testimonianza storica, congiunta al piacere puro e semplice della ricerca e della scoperta, bensì, laconicamente, una opportuna e concreta possibilità di guadagno, adoperandosi nel cercare il miglior offerente.

Già dalla sequenza iniziale, resa vistosamente in CGI, vedi il ringiovanimento del protagonista, e proseguendo con i rutilanti inseguimenti che vedono il nostro fuggire in sella ad un cavallo lungo le strade, e la metropolitana, della Grande Mela o alla guida di un gagliardo Tuk Tuk (sorta di motocarro) per le vie di Tangeri, per poi immergersi nelle acque del Mare Egeo o solcare i cieli, sempre mantenendosi in precario equilibrio sulla corda tesa della plausibilità, ho avvertito un netto sentore di meccanicità ma anche di programmaticità da catalogo ragionato.

Il buon Mangold, infatti, riprende una buona parte delle sequenze più caratteristiche della saga, “agitando non mescolando” una roboante frenesia che a mio avviso è distante anni luce da quel coinvolgimento scanzonato ed epico al contempo proprio dei lavori del duo Spielberg-Lucas, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, per quanto opportunamente rievocato dalle sempre valide musiche di John Williams, a partire dall’ormai leggendario tema che, nella sua caratura smaccatamente pop, nell’immaginario collettivo è probabilmente secondo solo a quello che accompagna le gesta di James Bond.

Tra cattivoni di prammatica, apparizioni soppesate (Sallah, John Rhys-Davies, che vive a New York ma ha nostalgia del deserto), l’inserimento di un ragazzetto aiutante di Helena giusto per coinvolgere i più giovincelli, comparse che meritavano una gestione senz’altro migliore nell’economia narrativa (Antonio Banderas, nei panni di Renaldo), la consueta visione folkloristica dell’Italia tra matrimoni ed immancabili processioni, concludendo con una compagna di viaggio ben resa da Waller-Bridge nella sua intraprendenza ma non poi così empatica, questo quinto capitolo mi è sembrato confezionato di tutto punto per offrire una concreta chiusura alle imprese di Indy, che, sempre a parere mio, aveva avuto già degna caratterizzazione nel finale di The Last Crusade, 1989, con quella cavalcata da leggenda, tradizionalmente verso il tramonto.

Si offre inoltre il destro, azzardo ma non credo poi tanto, ad una ripresa del filone con un altro protagonista: se Jones alla fine rinverrà un senso familistico per la continuazione del proprio esistere in una società a lui non confacente, il suo mitico cappello steso ad asciugare verrà preso da una mano che non mi è parsa essere quella del nostro eroe…

In fondo, se vogliamo, Indiana Jones e il quadrante del destino si fa emblema della conclamazione del passaggio da un cinema che sapeva reinventare se stesso attingendo dal proprio passato e dalla cultura popolare, tra inventiva, sana artigianalità e sincero trasporto emotivo, ad un tipo di spettacolo meno spontaneo, standardizzato, inteso non tanto a reinterpretare ma piuttosto ad assecondare modalità spettacolari, fragorose e volte al superomismo, perdendo però in tal guisa, personale opinione da vecchio babbano, l’essenza del divertimento in quanto tale, spontaneo, ribaldo e sbarazzino.

Immagine di copertina: Movieplayer

Una replica a “Indiana Jones e il quadrante del destino”

  1. Avatar Antonio Falcone
    Antonio Falcone

    L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.

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