
Anna Magnani (1908-1973), una delle più intense attrici che il cinema italiano abbia mai conosciuto; uno di quei felici casi in cui la donna e l’artista hanno dato vita ad un tutt’uno imprescindibile di vitalità ed umanità, nella capacità di restare sempre fedele a se stessa e alla propria arte per il tramite di una impareggiabile carriera teatrale e cinematografica.
Quest’ultima ebbe il suo culmine con l’Oscar conseguito per l’interpretazione di Serafina Delle Rose (prima attrice italiana ad averlo vinto per l’interpretazione in una pellicola americana) nel film The Rose Tattoo (La rosa tatuata, 1955, Daniel Mann, da un soggetto teatrale di Tennessee Williams), ruolo che le valse anche un BAFTA quale attrice internazionale dell’anno e il Golden Globe per la migliore attrice in un film drammatico.
All’inizio per le sue caratteristiche fisiche e caratteriali il cinema non le riservò molta attenzione, almeno finché prevalse il cosiddetto genere “dei telefoni banchi”, che imponeva un tipo di donna altera, sofisticata, distaccata dalle problematiche sociali.

Dal suo terzo film, Tempo massimo di Mario Mattoli del 1934, fino al simbolico addio in Roma di Fellini nel 1972, passando per titoli indimenticabili come Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945), ecco stagliarsi l’orgogliosa passione, l’umorismo tagliente ed il naturalismo estraneo ad ogni affettazione di Anna Magnani, la sua istintiva propensione tanto per il dramma quanto per la commedia, nella capacità di assecondare con naturalezza le sfumature caratteriali di diversi tipi di donna, tanto per il palcoscenico che per lo schermo, facendone risaltare, grazie alla varietà delle pellicole interpretate, mestiere ed anima.
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Roma, primo dopoguerra, borgata di Pietralata. In abitazioni fatiscenti, costruite con materiali scadenti e su un terreno acquitrinoso, tutto frutto delle speculazioni del commendatore Callisto Garrone (Armando Migliari), sulla base dei contributi statali previsti dal regime fascista, vivono varie famiglie, i cui componenti dormono ammassati in un unico stanzone o suddivisi in due stanze, come Pasquale Bianchi (Nando Bruno), vicebrigadiere di Pubblica Sicurezza, e sua moglie Angela (Anna Magnani), per tutti la “sora Angelina”, genitori di 5 figli.
Appena svegli, è già ora di fare i conti, tra lo stipendio di lui e quanto racimola lei col lavoro da sarta, i soldi comunque scarseggiano e si fatica ad andare avanti. Per la spesa è necessaria la tessera, i diversi viveri vengono distribuiti a giorni stabiliti e Benedetto (Ughetto Bertucci), il droghiere, ritarda la prevista consegna della pasta, che ha in magazzino, per incrementare i suoi traffici alla borsa nera.
Angelina non ci sta, si ribella e dà vita ad una “baccagliata” verso il deposito, seguita da tutte le donne del quartiere, un “assalto ai forni” di manzoniana memoria cui conseguirà la denuncia del “borsaro nero”. Non è che la prima mossa, ormai capopopolo, fiera e determinata, a testa di un movimento tutto al femminile, sempre a suon di “baccagliate”, ottiene l’acqua corrente e la fermata del bus a pochi metri dalla borgata.
Una volta che un alluvione renderà del tutto inagibili i miseri fabbricati, Angelina incita gli sfollati ad occupare i costruendi moderni casermoni poco distanti, sempre opera di Garrone, anche se Pasquale, vista la sua posizione, insisterà perché la famiglia si sistemi temporaneamente in un alloggio di fortuna, presso lo stalliere Luigi (Ernesto Almirante).
Già chiamata “onorevole” dalle compagne di lotta, determinate a dar vita ad un partito, anche considerando le proposte ricevute dai diversi schieramenti, l’indomita guerrigliera si renderà presto conto, a sue spese, di quali insidie possa nascondere una eventuale alleanza con Garrone, che ha ritirato la denuncia relativa all’occupazione non certo per clemenza o nobiltà d’animo…
Diretto da Luigi Zampa, anche autore della sceneggiatura insieme a Suso Cecchi D’Amico, Piero Tellini ed Anna Magnani, uno dei nostri registi più validi, mai incluso tra i “grandi” del neorealismo o della commedia, pagando, probabilmente, il suo discontinuo alternarsi tra opere connotate da un forte impegno politico e morale (come Processo alla città, 1952) ed altre inclini ad una certa superficialità, puntando a volte su un bozzettismo di facile presa, L’onorevole Angelina, pur tra difetti e contraddizioni, si rivela un film pregevole sotto molti punti di vista.
In primo luogo gli autori iniziano a tracciare la strada della commedia all’italiana propriamente detta, pur se a livello embrionale, a partire dall’intuizione di prendere spunto dagli accadimenti della cronaca quotidiana, già circoscritti dalla Storia, in tal caso una popolana di Città Giardino alla guida di una rivolta per ottenere la distribuzione del pane, per far sì che la realtà di un vero e proprio mondo a parte assurga a simbolo di tutto il malessere insito nella società italiana reduce dalla guerra, alle prese con soprusi, speculazioni, illeciti arricchimenti.
Si rende quindi protagonista una esponente del ceto più basso, resa in tutta la sua indomita vitalità da Anna Magnani, un’interpretazione vera e sentita nel donare alla “sua” Angelina, popolana verace, già dallo sguardo e poi in ogni atteggiamento, un’alternanza, scomposta ma sempre vivida, di fierezza e amarezza. Una donna che diviene simbolo di una sofferta emancipazione ed autodeterminazione, a confronto con il pensiero dominante e il potere politico, pronti a palesarsi nelle loro varie sfaccettature, nel bene e nel male.
Uno scontro che diverrà potenzialmente ma non concretamente incontro, tra la perseveranza nel mantenersi integri e continuare a lottare, “mi piego, ma non mi spezzo” (gli sguardi di Angelina verso i ricchi arredi dell’abitazione di Garrone), e il cedere invece alle tentazioni, evenienza rimarcata dall’agire del figlio di Angelina, che si presterà all’illecito.
L’onorevole Angelina, oltre alla citata interpretazione della Magnani, cui si uniscono quelle, sempre realistiche e sentite, di Nando Bruno e di Ave Ninchi, come dell’intero cast, può vantare una regia esemplare nel suffragare la descrizione di ambienti, vedi il bellissimo piano sequenza iniziale sui titoli di testa, con l’obiettivo della macchina da presa che parte dalla veduta aerea della Capitale per poi soffermarsi sulla degradata borgata ed indugiare all’interno della misera stanza (speculare a quello sui titoli di coda, che rende invece il percorso inverso), e caratteri dei personaggi (gli intensi primi piani).
Pregi che, ad avviso di chi scrive, surclassano difetti quali l’essere ondivago tra diversi stilemi, “agitati, non mescolati”: neorealismo (la sequenza dell’alluvione ad esempio), commedia intesa a sfruttare le maschere del teatro popolare ed avallare l’ironia, amara, presente in molti dialoghi, il dramma.
Tra istanze populiste e qualche deriva qualunquistica, non risulta estraneo poi un lieve tono favolistico, da utopica speranza, rappresentato dall’amore tra la figlia di Angelina e il figlio del commendatore (un giovanissimo Franco Zeffirelli), deciso a non seguire le orme paterne.
Ancora “scandalosamente” attuale il significato da attribuire all’appellativo “onorevole”, per bocca della stessa protagonista: non solo una persona istruita e onesta che ci rappresenti degnamente dagli scranni, ma chiunque si adoperi al meglio delle sue possibilità e capacità per vivere onestamente, crescendo sulla base di tali valori la propria famiglia, pronto a combattere per la valenza dei propri come degli altrui diritti.
Anna Magnani per il suo ruolo da protagonista vinse il Nastro d’Argento e la Coppa Volpi alla 8ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.





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