
Roma, 14 maggio 1946. La città porta ancora i segni inferti dalla guerra, militi americani lungo le strade, la spesa da fare con la tessera, in base a prefissate distribuzioni giornaliere di determinati viveri, un generale senso di disfatta appena mitigato dalla fiducia verso un avvenire quantomeno diverso, se non migliore. E’ mattina, e in un sottoscala di una casa del Testaccio Delia (Paola Cortellesi) si appresta ad iniziare un nuovo giorno, che sarà del tutto uguale a quelli che l’hanno preceduto, tra i ceffoni elargiti dal marito Ivano (Valerio Mastandrea), neanche il tempo di alzarsi dal letto, conseguenti ad ogni mancata corrispondenza manifestata riguardo le proprie intenzioni o i propri desideri.
La cura della casa e dei tre figli, due maschi ed una femmina, l’assistenza al suocero Ottorino (Giorgio Colangeli), allettato, si alternano a varie attività, dalle iniezioni a domicilio ai lavori di rammendo per una merceria, passando per l’impiego in una piccola fabbrica di ombrelli. Dei soldi guadagnati, che deve consegnare al greve consorte, ne trattiene ogni volta una piccola parte, così da raggranellare la somma necessaria per comprare un bel vestito da sposa alla figlia.
E già, per l’adolescente Marcella (Romana Maggiora Vergano) l’unica possibilità di riscatto, vista l’impossibilità di proseguire gli studi causa difficoltà economiche (risolte però “magicamente” per uno dei fratelli), andrebbe a consistere nel matrimonio con Giulio (Francesco Centorame), rampollo di una benestante famiglia piccolo borghese, tenutaria di un bar. Delia conduce con mesta rassegnazione la propria quotidianità, la parannanza in guisa di abituale divisa, le chiacchiere e i litigi in cortile, le confortanti confidenze con l’amica Marisa (Emanuela Fanelli), fruttarola avviata ad una concreta emancipazione, grazie alla complicità del marito.
Affiora poi il ricordo di un altro amore possibile, quello, corrisposto, verso il meccanico Nino (Vinicio Marchioni), timido e di buon cuore, che le prospetta di partire insieme verso il Nord Italia, nella possibilità di trovare lavoro in fabbrica. Una mattina, all’improvviso, andrà a palesarsi per Delia un inedito senso di speranza, nella forma di una lettera indirizzata proprio a lei, che la portiera ha provveduto a consegnarle di persona, senza dire nulla ad Ivano…
Film di apertura, in Concorso (sezione Progressive Cinema-Visioni per il mondo di domani), alla 18ma Festa del Cinema di Roma, dove ha conseguito il Premio Speciale della Giuria, una Menzione Speciale come Miglior Opera Prima e il Premio del Pubblico, C’è ancora domani vede Paola Cortellesi al suo esordio nella regia, nonché interprete e sceneggiatrice, in quest’ultimo caso insieme a Giulia Calenda e Furio Andreotti.
A parere dello scrivente, siamo di fronte ad un’opera coraggiosa e necessaria: la necessità si ravvisa in quanto, per il tramite di una suggestiva compenetrazione tra la bravura dell’attrice e l’intelligenza dell’autrice, viene messa in scena, incorniciata in un passato idoneo a farsi presente, una ben precisa azione di sottomissione, fisica e psicologica, esercitata nei riguardi delle donne da parte di uomini tronfi di retrive ideologie ed atavici pregiudizi. Il retaggio di un modello patriarcale, presente un po’ in tutte le classi sociali, felici eccezioni escluse, duro a morire, anzi incline a rivivere, allora come adesso, nell’esternazione di una fallace superiorità, paravento quest’ultima di quelle frustrazioni e di quei rancori conseguenti all’incapacità di fronteggiare la ritualità giornaliera.
Riguardo poi il coraggio, lo si può notare nella visualizzazione di quanto descritto per il tramite di uno stile registico che, a partire dalla scelta del bianco e nero (ben reso nei toni dalla fotografia di Davide Leone), si collega a determinate pellicole del passato (in particolare, personale sensazione, ai lavori di Zampa e Steno), intese a coniugare i toni del neorealismo con quelli della commedia, nell’avvicendarsi di dramma e amara ironia.
La Cortellesi rivela una vivida sagacia nel mutuare gli indicati stilemi attraverso un senso artistico del tutto consono alla propria personalità, umana e professionale. Ecco allora l’avvio della narrazione in 4:3, così da restringere la visione all’interno del seminterrato dove abita Delia con la sua famiglia, congruo microcosmo rappresentativo di una realtà costretta, anche metaforicamente, in un determinato ambito sociale/culturale, mentre una volta fuori, lungo i quartieri e le vie della Capitale, la visuale si allarga, alla ricerca di ogni sentore che lasci presagire un’aria di cambiamento.
Particolare, poi, l’impiego della colonna sonora, che mescola con disinvoltura, a volte con qualche stridore, varie canzoni di differente epoca, a fungere da supporto didascalico, ora connotando ironicamente col brio delle note una situazione di ordinario squallore (l’apertura delle finestre del sottoscala sui marciapiedi soprastanti, tra deiezioni canine e quant’altro, mentre riecheggia, appunto, Aprite le finestre, qui interpretata da Fiorella Bini*), ora rimarcando determinate emozionalità (l’incontro tra Nino e Delia, il ricordo del corteggiamento di Ivano), oppure, scelta straniante, volte a trasmutare in un goffo numero da musical la triste ripetitività delle sberle e delle cinghiate.
Non sempre, almeno a mio avviso, i diversi stilemi trovano la via di un compiuto amalgama, ma questo non impedisce a C’è ancora domani di mantenere una certa coerenza autoriale e, soprattutto, di conciliarla con un sano afflato popolare nell’andare incontro al pubblico, mediando tra forma e contenuto.
In un cast sempre all’altezza, con Mastandrea esemplare nel rendere Ivano il tipico rappresentante di quella bassezza propria della bestialità umana, ereditata dal padre e adattata alle proprie insoddisfazioni esistenziali, risaltano, oltre alla caratterizzazione della Cortellesi, tra dolore trattenuto e speranza sottesa, quella esternata da Emanuela Fanelli, la Marisa contraltare e sprone decisionale di Delia, e dalla giovane Vergano nei panni dell’adolescente Marcella, empatica nel rendere malumori ed insicurezze di chi cerca alleati nel provare a mutare lo stato delle cose.
Di rilievo anche l’espediente narrativo, insinuante MacGuffin come credo notato da molti, costituito dalla misteriosa lettera ricevuta da Delia, il cui senso andrà a dispiegarsi nell’intenso e commovente finale, quando anche il titolo del film verrà ad assumere un ben preciso significato, fino ad offrire concretezza ad un condiviso auspicio, visualizzato emblematicamente dal muro di uomini e donne che si para intorno alla protagonista, impedendo al coniuge di farle ancora del male.
E’ l’augurio che si riesca ad annientare definitivamente qualsivoglia negatività intesa ad impedire quella effettiva emancipazione, individuale e collettiva, volta all’autodeterminazione e consona al poter scegliere, con sempre maggior forza e convinzione, nell’unità d’intenti tra uomini e donne, la propria essenza vitale, individuale, sociale e lavorativa.
Il tutto anche andando oltre una previsione legislativa (basterebbe citare l’art. 3 della Costituzione, che prevede un principio d’eguaglianza formale e sostanziale), spesso resa necessaria da quella retriva stolidità maschilista purtroppo tuttora rinvenibile in vari settori della nostra società, anche, se non soprattutto, in subdole forme latenti.
*Scritta da Virgilio Panzuti e Giuseppe Perotti, venne presentata al Festival di Sanremo del 1956, cantata da Franca Raimondi
Immagine di copertina: Movieplayer






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