Roger Corman (Il Post)

Lo scorso giovedì, 9 maggio, ci ha lasciato Roger Corman (Detroit, 1926), tra gli autori e produttori americani più geniali e versatili, capace di volgere lo sguardo al cinema degli esordi, colto nella sua primigenia essenzialità visiva, suscitante emozione, divertimento o semplice stupore, e, allo stesso tempo, di andare oltre, partendo dalla semplice intuizione di qualsivoglia tendenza ed arrivando alla sua realizzazione pratica, facendo tesoro tanto di valide idee espresse nelle sceneggiatura, quanto degli esigui budget a disposizione, spesso ridicoli rispetto a quelli delle grandi major. Da regista e sceneggiatore (l’esordio risale al 1955, Five Guns West), Corman ha realizzato una lunga serie di film, almeno cento se la memoria non mi inganna, in cui la modalità a basso costo si coniugava in maniera inedita con principi di qualità e popolarità, riuscendo a reinventare, grazie al suo sguardo d’autore, il grande universo del cinema di genere, dall’horror alla fantascienza, fino allo splatter, passando, tra l’altro, per i gangster movie o il soft-core. Il tutto si palesava  nel servire agli spettatori un cocktail “agitato, non mescolato”  di intuitività creativa, brutalità figurativa ed ironia, fino a coniugare la visionarietà con un tangibile senso del macabro, senza dimenticare sottesi riferimenti socio-politici o volti alla psicanalisi.

(Wikipedia)

Indimenticabili nella loro fascinosa resa onirica gli horror tratti dai racconti di Edgar Allan Poe, inizialmente prodotti con la American International Pictures e in collaborazione con lo scrittore e sceneggiatore Richard Matheson, idonei a tracciare un solco inedito nell’ambito del fantastico cinematografico, a partire da House of Usher (1960), per poi proseguire con Pit and the Pendulum (1961), Premature Burial (1962), Tales of Terror (1962), The Raven (1963), The Haunted Palace (1963), The Masque of the Red Death (1964) ed infine The Tomb of Ligeia (1964). Fondamentale inoltre la sua attività di produttore, garantendo il debutto, tra gli altri, di futuri “mostri sacri” quali Francis Ford Coppola (Dementia 13, 1963), Martin Scorsese (Boxcar Bertha, 1972) o Joe Dante (Hollywood Boulevard, 1976, diretto insieme ad Allan Arkush). Per ricordarne la figura ho scelto di scrivere del film La piccola bottega degli orrori perché a mio avviso contiene i tratti salienti di tutta la produzione cormaniana: un budget risicato (30mila dollari), lo sfruttamento di una scenografia già esistente, il tempo necessario a girarlo, ormai assunto a leggenda, circoscritto in due giorni (e una notte), l’originalità della sceneggiatura (Charles B. Griffith), inedita contaminazione tra noir, commedia ed horror, giocando con il surreale e il grottesco.

(Rotten Tomatoes)

La voce del sergente Fink (Wally Campo), raccontando un caso del quale si è dovuto occupare, ci introduce nei bassifondi di New York, nel modesto negozio di fiori del signor Mushnick (Mel Welles), la cui clientela è quantomeno bislacca: vi è Burson (Dick Miller), che adora fare uno spuntino con i garofani, in attesa della cena a base di gardenie fritte, ma  anche la signora Shiva (Leola Wendorff), nella cui famiglia i lutti si susseguono a velocità incredibile. Il pomposo proprietario ha poi due assistenti, la graziosa commessa Audrey (Jackie Joseph) e il garzone Seymour (Jonathan Haze), timido ed imbranato, oppresso da una madre ipocondriaca (il medicinale ideale, buono per tutti i mali, è al 90% di tasso alcolico…) e prossimo al licenziamento, dal quale si salva proponendo come attrattiva per il negozio una pianta insolita da lui coltivata, pare l’abbia acquistata da un commerciante cinese, a cui ha dato il nome di Audrey Junior. Il vegetale, però, appare refrattario ad ogni tipo di concime, a meno che non sia sangue umano…

Jonathan Haze, Audrey Junior, Mel Welles (PBS)

Girato per gran parte in interni (i Chaplin Studios, ad Hollywood), il che connota la narrazione di un forte impatto teatrale, il film sfrutta la sopra citata contaminazione con spavalda disinvoltura e il tocco leggiadro di un umorismo estremamente acre, volto a connotare una satira sociale visualizzata con una certa sapidità, sia nelle figure di contorno che nel protagonista Seymour, perdente in cerca di riscatto sociale che resterà emblematicamente vittima di se stesso. La regia di Corman fa sì che i vari elementi più che integrarsi tra di loro nel corso della narrazione vengano semplicemente a delinearsi sino a contrapporsi, caratteristica che troveremo in varie pellicole di genere degli anni ’70 e ’80, dando vita ad un horror soprattutto di sensazione, visto che sul raccapriccio predomina un ben più evidente senso dell’assurdo, con invito ad accettarlo nella sua compiuta concretezza.

Jack Nicholson (IMDb)

Da segnalare, infine, una delle prime apparizioni di tal Jack Nicholson, qui nella parte di un masochista, “vittima” di Seymour improvvisatosi dentista, che già sfodera il suo ghigno da “Big Bad Wolf”, e, a conferma della validità del soggetto, la riproposizione, nel 1982, in chiave musical off Broadway (ad opera di Howard Ashman e Alan Menken), da cui derivò, 1986, il forse più famoso film di Frank Oz. The Little Shop of Horrors in questa sua primigenia versione rappresenta, sempre a parere di chi scrive, forse la massima espressione di un cinema che ormai non esiste più, almeno nella sua genuina capacità di andare ben al di là  dei canoni consolidati, caratteristica che valse a Corman l’appellativo di  The Pope of Pop Cinema, rendendolo un puntuale riferimento per tutta una generazione di cineasti in virtù del suo spirito inventivo e ribelle, inteso a scardinare l’assunta classicità di qualsivoglia struttura o meccanismo della narrazione.

Immagine di copertina: Spietati.it

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