L’armata Brancaleone, di Mario Monicelli, anche sceneggiatore insieme ad Age & Scarpelli è un film genialmente prorompente nella sua forza diversiva dalla classica “commedia all’italiana”, tanto da divenire fenomeno di costume, visto che ancora oggi si parla di “armata Brancaleone” per indicare qualche sgangherata compagnia volta al compimento di imprese ben al di sopra delle proprie potenzialità. Un cavaliere arriva in uno sperduto villaggio, appena assaltato dai briganti,e li mette in fuga, ma a sua volta viene assalito da dei ladruncoli che, dopo averlo sopraffatto, lo gettano in un fosso; tra quanto sottrattogli, il ricettatore Abacuc (Carlo Pisacane)trova una pergamena che attesta l’investitura del feudo di Aurocastro:occorre convincere qualcuno a sostituirsi al defunto ed unirsi a lui nel prendere possesso delle terre.

Fa al caso tal Brancaleone da Norcia (Vittorio Gassman), cavaliere male in arnese, che si mette al comando della scalcinata compagnia: lungo il percorso incapperanno in varie avventure: l’incontro con il bizantino Teofilatto (Gian Maria Volontè) ed una compagnia di penitenti capeggiata dal frate Zenone (Enrico Maria Salerno), l’occupazione e la fuga da una città in preda alla peste, il salvataggio di una promessa sposa (Catherine Spaak)…

Pur con qualche slegamento che si delinea man mano nella narrazione, il film è mirabile in primo luogo per l’idioma adoperato dai personaggi, geniale miscuglio di vari dialetti italiani e latino maccheronico, gergo popolano e linguaggio altisonante dai risvolti a dir poco esilaranti, poi per demitizzare il Medioevo dei ricordi scolastici, allontanandosi da un’iconografia oleografica e romantica, offrendone una rilettura certo nuova ed originale, sfruttandone i luoghi comuni e deformandoli giocando sul filo dell’ironia e del grottesco per stemperare il tono estremamente realistico della narrazione, pur in un impatto visivo e scenografico quantomeno originale (vedi i costumi di Piero Gherardi).

Con qualche debito figurativo verso la filmografia giapponese ( La sfida del samurai, Kurosawa, ’61) e attingendo ad una ricca sorgente letteraria (dal Don Chisciotte di Cervantes al Cavaliere inesistente di Calvino, passando per Pulci), si delinea la poetica cara al regista: l’antieroismo, la presa in giro del genere avventuroso, piccoli uomini che divengono protagonisti della Storia, anche loro malgrado, tra cavalieri ben lontani dal mito, straccioni, appestati e morti di fame, protesi al Cielo come speranza ma saldamente attaccati alla terra nella lotta per sopravvivere.

Indimenticabile l’interpretazione dell’immenso Gassman, tra teatralità e fregolismo, smargiasso e sbruffone, un po’ ronin, il samurai senza padrone, anche nel look, e un po’ Don Chisciotte, fermo seguace di un codice cavalleresco in cui sembra credere solo lui, nonostante la vita gli offra, spesso ed inesorabilmente, il conto; ma tutti gli attori offrono gustose interpretazioni, come il decadente Teofilatto di Volontè e l’invasato frate di Salerno. Da ricordare le musiche di Rustichelli e il riuscito sequel Brancaleone alle crociate, ‘70.

2 risposte a “L’armata Brancaleone (1966)”

  1. Un bellissimo film, leggero ma non banale nè volgare; stupenda l’interpretazione di Gassman, che riprenderà il ruolo in “Brancaleone alle Crociate”, dove rimarranno memorabili i suoi dialoghi con la morte

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    1. Certamente è uno dei capisaldi del nostro cinema, ancora fresco e godibilissimo a distanza di anni, non fosse altro per la visione di un’Italia medioevale lontana certamente dalle polverose pagine dei manuali scolastici…Gassman è eccezionale, come lo sarà nel riuscito sequel: i dialoghi con la morte visualizzano quella che è un’idea ricorrente nei film di Monicelli, spesso sullo sfondo. Per un problema con internet è probabile che le mie repliche ti siano giunte più volte, la linea va e viene…Grazie, e a risentirci presto.

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