Presentato, in concorso, al 31mo Torino Film Festival, dove ha conseguito il Premio del Pubblico, La mafia uccide solo d’estate rappresenta l’esordio come regista cinematografico di Pif (Pierfrancesco Diliberto), noto (e bravo) autore televisivo (Il testimone), già assistente alla regia per Franco Zeffirelli (Un tè con Mussolini, ’98) e Marco Tullio Giordana (I cento passi, ’99).
A parere di chi scrive siamo di fronte ad uno dei migliori film italiani di questi ultimi anni, capace di fare la differenza tanto per coerenza di stile quanto per rispetto nei confronti del pubblico, vista la preferenza rivolta ad una pregevole combinazione di ironia, poesia ed impegno civile rispetto ai sin troppo abituali schemi facilmente ridanciani, magari con in sovrappiù una location distante anni luce dal reale. Coadiuvato nella sceneggiatura da Michele Astori e Marco Mantani, Pif mette in scena una storia di formazione e conseguente presa di coscienza, dal retrogusto autobiografico e dalla forte valenza di messaggio universale contro ogni forma di sopruso e sopraffazione del libero agire umano, per un risultato finale sicuramente convincente, dai toni commoventi e aperti alla riflessione condivisa.

La voce fuori campo del protagonista Arturo (Alex Bisconti da bambino, Pif da adulto) ci conduce all’interno della narrazione, il racconto di come la sua esistenza in quel di Palermo, dal concepimento (la strage di Via Lazio, 1969) all’età adulta (gli omicidi di Salvo Lima, Giovanni Falcone con sua moglie e gli uomini della scorta, Paolo Borsellino, 1992) sia stata contrassegnata dal verificarsi di episodi criminali messi in atto da potenti organizzazioni mafiose, che, nell’indifferenza generale, a parte l’impegno delle Forze dell’Ordine (il commissario Boris Giuliano, fra gli altri) e dei giudici (come Rocco Chinnici e la sua ideazione del primo pool antimafia), agiscono indisturbate in città, estendendo rapidamente la loro azione in tutto il Paese.
Un altro accadimento importante nella vita del nostro è l’amore per la sua compagna di classe delle Elementari, Flora (Ginevra Antona), mai dichiarato e sempre costante nel tempo, che ha occasione di rincontrare dopo tanti anni (ora interpretata da Cristiana Capotondi), quando, ormai giovane uomo, è in procinto di acquisire definitiva consapevolezza, insieme a molti altri, riguardo quanto è realmente accaduto, e sta ancora accadendo, intorno a lui …

La regia di Pif, pur non propriamente inventiva, appare però funzionale ad offrire una più che valida visualizzazione alle felici intuizioni della sceneggiatura, la quale a sua volta riesce a delineare efficacemente un particolare punto d’incontro tra realtà e finzione, cronaca e storia, ricorrendo spesso a filmati di repertorio, oltre a bilanciare con accortezza dramma ed ironia, evitando derive spettacolari nel mettere in scena i vari eventi. Riporta nell’alveo della normalità, avvolta dal grottesco, la quotidianità umanamente grigia e banale dei boss mafiosi (Salvatore Riina, per esempio) e che solo tacita accondiscendenza e perpetrata connivenza possono trasformare in qualcosa di straordinario.
Eguale “normalità” avvolge le figure di quanti hanno negli anni lottato contro la cancrena della criminalità organizzata e le sue estese metastasi, persone il cui eroismo è consistito nel mettere in atto con sacrificio e dedizione il proprio dovere, lottando contro l’indifferenza, l’ignavia e il fastidio suscitato in quanti preferiscono vivere con la testa nascosta fra la sabbia del classico “niente so e niente voglio sapere”.

L’Arturo bambino, il quale si trova suo malgrado a convivere con vari eventi delittuosi, lasciandosi convincere da quanto sostiene la gente o il suo papà, che la mafia, ove esista, non sia qualcosa da temere (rispettivamente, “ammazza solo quelli che vanno a femmine” o “uccide solo d’estate, ora siamo in inverno..”), rappresenta un’Italia ancora ingenua, la quale, in una delicata fase di crescita sociale e civile, fa affidamento sui proclami salvifici delle istituzioni e sulle loro promesse d’aiuto (emblematica al riguardo la figura di Giulio Andreotti, eroe del ragazzino dopo essersi rivelato provvidenziale ed inedito Cyrano per i suoi problemi amorosi), mentre i rappresentanti, sia della Chiesa (illuminante la figura di Frate Giacinto, Ninni Bruschetta) che dello Stato, coltivano la connivenza con la criminalità come prosecuzione e mantenimento, in odor di reciprocità, del Potere.
L’Arturo adulto, invece, la cui presa di coscienza civile deve necessariamente coincidere con la dichiarazione del suo amore a Flora, perché solo un uomo moralmente libero può vivere con pienezza la propria esistenza e condividerla con quanti gli stanno vicino, concretizza l’idea di un Paese finalmente destatosi dal torpore acquiescente, con il passato a rappresentare qualcosa che possa andare oltre un vacuo esercizio di memoria.

I tanti, troppi, morti ammazzati costituiscono allora un concreto sprone alla speranza, uno spiraglio aperto alla voglia di lottare, di riprendere in mano la propria vita e la sua esternazione nei confronti del prossimo e di quanti verranno dopo di noi, “perché i genitori hanno sì il compito di difendere i figli dalla malvagità del mondo, ma anche di aiutarli a riconoscerla”.
Un finale struggente, che rimane dentro anche a giorni dalla visione, costituisce il degno suggello di un film tanto semplice quanto coinvolgente e sincero, sicuramente da vedere e, mi unisco alle voci di molti, da prevedere in proiezione scolastica. Grazie, Pif.
“Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. (Giovanni Falcone)

2 risposte a "La mafia uccide solo d’estate"