(Cinematografo)

Spiazzante punto d’incontro fra il gusto figurativo proprio di un regista come Ridley Scott e la vivida scrittura di Cormac McCarthy (qui alla sua seconda sceneggiatura dopo The Gardener’s Son, ’76, un episodio della serie tv Vision, diretto da Richard Pearce), la cui arguzia e il sottile humour nero conferiscono un’inedita dimensione al risvolto nichilista delle umane vicende che prende vita nelle sue opere, The Counselor si delinea come un noir d’impronta classica, il quale affonda le sue radici nella tradizione hollywoodiana del genere.

La rappresentazione sullo schermo si dipana con i toni propri della tragedia, dallo svolgimento dell’azione in tempo reale, intervallata da singoli accadimenti ad essa coevi o antecedenti, i quali andranno poi a concatenarsi tra loro (anche se solo l’essenziale sarà svelato e molto resterà nell’ombra), fino al dualismo fra necessità e libertà nel mettere in atto una scelta, rappresentato dal protagonista principale, interpretato da Michael Fassbender, che offre con una certa efficacia il passaggio dalla sfrontata arroganza iniziale alla cupa disperazione una volta trovatosi lungo il sentiero della discesa agli inferi senza appello.

Non a caso il personaggio viene indicato e nominato sempre e soltanto col titolo conseguente alla sua professione (avvocato, d’ufficio, e non il procuratore del titolo italiano), così da rendersi simbolo evidente della deriva propria di un’umanità intenta a giocare a dadi col destino, convinta che ad un’azione criminale, pur esercitata in via occasionale, non debba necessariamente seguire un castigo, di qualsiasi natura, senza pensare alle tragiche conseguenze per quanti gli sono vicino.

E fra questi vi è la fidanzata del nostro, Laura (Penélope Cruz), le cui sembianze d’ingenuità e disincanto si ammantano di toni ambigui (come fa sospettare un dialogo fra un tagliatore di diamanti, Bruno Ganz, e l’avvocato, in apparenza incentrato su una serie di tecnicismi inerenti dimensioni e purezza delle pietre), propri del resto a ciascuno dei personaggi rappresentati, i quali entrano in scena ognuno con delle caratteristiche già delineate, conseguenti ad eventi già verificatisi in precedenza e che noi spettatori possiamo semplicemente intuire relativamente al loro rapporto causa/effetto.

L’unica persona veramente pura, paradossalmente, si rivela chi, distaccandosi definitivamente dall’alveo sociale, usato pragmaticamente per i più elementari bisogni primari, punta alla personale sopravvivenza, lontano da qualsivoglia genere di sentimenti nel seguire le linee guida della propria voracità, unite al gusto d’inseguire la preda prima di fagocitarla, ovvero Malkina (Cameron Diaz, algida dark lady), la compagna di Reiner (Javer Bardem, vagamente carnevalesco), eccentrico proprietario di un night club, opportuno paravento per i suoi affari criminali legati al traffico di droga.

L’uomo fatica ad apprezzare la vera natura di Malkina, restando però profondamente turbato dal suo modo di fare, cui non riesce a dare un senso, rifugiandosi nel misogino paravento dell’incomprensione. Proprio in uno dei suddetti traffici si trova ora coinvolto l’avvocato, socio di Reiner con la mediazione di Westray (Brad Pitt, qui valido caratterista), dandy con fare da filosofo, bravo a sentenziare per gli altri ma non altrettanto nel mettere in guardia se stesso, il quale rappresenta il tramite col famigerato “cartello” che detiene il controllo del citato smercio dal Messico verso gli Stati Uniti.

I suoi componenti sono capaci delle azioni più efferate per proteggere il proprio “lavoro” (anche in tal caso, con eguale orrore e raccapriccio, alcune di esse le intuiamo o le apprendiamo da una serie di conversazioni, altre le vediamo verificarsi) e si avvalgono al riguardo di manovalanza locale, che esegue il tutto con scrupolo certosino, stile catena di montaggio, con il guadagno concreto della mera sopravvivenza, nel mantenimento dello status quo.

In un’evidente rincorsa fra parola ed immagine, il punto d’incontro tra la scrittura di McCarthy e il senso visivo di Scott è conferito dalla scelta registica di dare risalto al verbo offrendo rilievo espressivo alla pura corporeità dei protagonisti più che alle loro caratterizzazioni o sfumature psicologiche, sottolineata da studiate inquadrature dal gusto pittorico (i corpi dei due amanti che si muovono sotto le lenzuola nella scena iniziale) ed insistiti primi piani, rivolti anche a vari particolari dei raffinati arredamenti interni, contrapposti a campi lunghi nelle riprese in esterno.

Viene quindi evidenziato, più che la correlazione ambiente-personaggi, il loro distacco dal mondo esteriore, quanto vi è al di fuori del proprio habitat naturale, quel microcosmo costruito a misura e gusto di ciò che l’agiatezza economica può consentire, compreso il superfluo, grazie a scelte di vita mosse dall’avidità e mancanza di qualsivoglia scrupolo morale, il cui unico senso sembra essere conferito dall’inevitabilità di un’incipiente decadenza.

Per quanto possano apparire predominanti i dialoghi rispetto a tutto il resto, considerata la sopra descritta funzione anticipatrice/ esplicativa, The Counselor scorre con una certa fluidità, anche in virtù di un valido montaggio (Pietro Scalia), e si rivela capace di lasciare attoniti sino al finale, il quale, pur con qualche sghembo didascalismo (da un dvd inviato all’avvocato è del tutto intuibile la sorte toccata ad un personaggio del film, non vi era bisogno, a mio avviso, di renderla evidente con una sequenza più o meno successiva), resta spietatamente lucido nel suo ammonimento su quanto l’animo umano nel suo incedere terreno possa offrire spazio alla corruttibilità sino ad auto annientarsi.

Un film da vedere, che sin dalla sua uscita ha offerto le più diverse interpretazioni, palesandosi come una di quelle pellicole destinate ad essere odiate o incensate in egual misura. Personalmente, avendo avvertito, durante e dopo la visione, un tangibile senso di straniamento, unito, in egual misura, ad un altrettanto indubbio ammaliamento, ritengo che The Counselor abbia comunque il merito di non lasciare indifferenti, in virtù di un plateale esibizionismo postmoderno, sospeso fra fascino visivo ed intrigante letterarietà. Da far sedimentare ed apprezzare definitivamente tra qualche anno: come è noto il tempo può rivelarsi galantuomo, anche, se non soprattutto, in ambito cinematografico.

4 risposte a “The Counselor- Il procuratore”

  1. La tua recensione é di gran lunga migliore della mia. Più dettagliata, più attenta agli aspetti tecnici, più completa nel dare il giusto spazio a tutti i personaggi del film.
    Del tuo post mi ha colpito in particolare la frase finale: é vero, il tempo può dare ragione ad un film la cui bellezza non fu capita fino in fondo al momento dell’ uscita. Penso a film come L’ attimo fuggente o Quei bravi ragazzi, che al momento dell’ uscita presero un Oscar solo (tra l’ altro minore) e oggi ne prenderebbero 10.
    Questo non solo perché quei film sono giustamente diventati dei cult, ma anche perché il cinema di oggi é molto peggiore rispetto a quello di anche solo 20 anni fa.
    A mio giudizio dal 2000 in poi sono usciti soltanto 5 capolavori:
    – Bobby;
    – Hotel Ruanda;
    – Ritorno a Cold Mountain;
    – Stanno tutti bene;
    – Two Lovers.
    Anche questi 5 titoli non sono stati capiti: l’ unico ad aver vinto un Oscar é stato Ritorno a Cold Mountain (peraltro anche in questo caso un premio minore, alla migliore attrice non protagonista).

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    1. Ciao, grazie… Diciamo che vi sono film capaci, nel bene e nel male, di offrirmi qualcosa in più a livello di sensazioni pure e semplici e cerco di riportarle su carta. “The Counselor” mi ha lasciato perplesso e meditabondo per qualche giorno e ci ho messo un po’ di tempo a dare concretezza ed ordine a tutto quello che avevo in testa. Generalmente è così, molti film incompresi o massacrati dalla critica, oppure non considerati dal pubblico, poi sono stati rivalutati nel tempo e l’elenco al riguardo si presenta piuttosto lungo… A mio avviso, forse generalizzo un po’, oggi si tende ad assecondare il pubblico più che a stimolarlo con proposte veramente inedite. Riguardo la tua lista, mi trovi sostanzialmente d’accordo, anche se personalmente allargherei la cerchia, fra gli altri, anche a Nolan (“Memento”) o ad autori italiani come Moretti o Sorrentino, ma qui entrano in gioco anche i gusti personali. Grazie per la visita e il commento, cari saluti.

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      1. Non ho mai visto Memento, ma mi é stato caldamente raccomandato da più di un amico. Oggi lo danno su SKY: può darsi che finalmente mi decida a dargli una chance.
        Hai ragionissima quando dici che oggi i film sembrano fatti con lo stampino, tutti infarciti di quei soliti 3 – 4 elementi inseriti ad arte per assecondare il pubblico.
        A questo proposito, ritengo illuminante un’ intervista a Muccino di 2 anni fa. Il regista, nel tentativo di giustificare il flop del suo terzo film made in Hollywood, disse: “Se ti impacchettano il film ‘commedia sentimentale’ si aspettano che accadono certe cose, sempre le stesse. Monicelli, Risi, Scola per la commedia americana sono arte d’avanguardia. Ho capito perché Woody Allen ormai gira soltanto in Europa”. (fonte: http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2012/12/10/news/intervista_muccino-48431765/).
        Certo, può darsi che siano parole di frustrazione di un regista che non é riuscito ad affermarsi nella Mecca del cinema (la vecchia storia della volpe e dell’ uva), ma sicuramente c’é del vero nelle sue parole. Grazie a te per la risposta, e buona Domenica! : )

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      2. C’è del vero sì, in particolare quando sostiene che “guardare ai nostri classici non significa guardare al passato ma al futuro”, affermazione che estenderei anche al di là dei nostri confini. Grazie di nuovo, buona domenica anche a te.

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