
Probabilmente non avrei potuto scegliere film migliore per “celebrare” il ritorno in una sala cinematografica dopo mesi di visioni in streaming o, attingendo dalla personale videoteca, in vhs/dvd: Tenet, ultima fatica di Christopher Nolan, regista e sceneggiatore di un’opera affascinante e coinvolgente nella sua suggestiva, raffinata, composizione visiva e non solo, considerando come al riguardo rivestano un ruolo determinante la fotografia di Hoyte van Hoytema, che, almeno in determinate sequenze, sembra prediligere il rosso ed il blu quali colori primari (il gioco delle luci di base personalmente mi ha ricordato il bianco e nero dei vecchi noir), un montaggio (Jennifer Lame) “secco” ed incalzante, la colonna sonora di Ludwig Göransson, incline a rimarcare l’andamento narrativo in crescendo, assecondando ora tonalità orchestrali, ora cupe percussioni. Come tutte le realizzazioni di Nolan, anche Tenet intende affidarsi al cinema in quanto tale, essenzializzato nella sua primigenia integrità di cristallina implicazione, visiva e narrativa, rielaborando, all’interno di una personale poetica stilistica (ardite costruzioni temporali, “salti” improvvisi, pause e rallentamenti), classicità e genere. Viene così richiesta la complicità degli spettatori, invitati a “stare al gioco” in cambio di un’atmosfera realistica ed immersiva, oltre ad un intrattenimento spettacolare, non scevro da riferimenti morali, mai fine a se stesso. Occorre dunque lasciarsi andare e godere degli accadimenti che andranno a visualizzarsi sullo schermo, senza interrogarsi minimamente sulla loro plausibilità, rivelandosi anzi del tutto superflue le dotte spiegazioni fornite a piene mani all’interno dei dialoghi fra i protagonisti, anche perché Nolan intende sfruttare più di un McGuffin nel corso della narrazione, a partire dal cosiddetto Quadrato di Sator, iscrizione latina ricorrente in vari ambiti composta da cinque parole (Sator, Arepo, Tenet, Opera, Rotas), le quali lette nell’ordine danno luogo ad un palindromo, variamente interpretato, e che in Tenet offrono connotazione a luoghi e persone.

Cercando di ricondurre la trama ad una compiuta essenzialità, senza incorrere in alcuna anticipazione, il tutto prende piede al Teatro dell’Opera di Kiev: un attentato terroristico si rivelerà essere una prova di lealtà per il Protagonista (John David Washington), agente al soldo della CIA che verrà dunque incaricato di una delicata missione, atta a scongiurare una possibile III Guerra Mondiale: occorre infatti impedire che il magnate russo Sator (Kennet Branagh) s’impossessi dell’ultima parte di un particolare algoritmo capace d’invertire l’andamento temporale, creazione della trafficante d’armi indiana Priya Singh (Dimple Kapadia), la quale lo ha suddiviso in più componenti, sparsi in varie località lungo il globo.
Ricevute opportune informazioni da Sir Michael Crosby (Michael Caine) ed assoldato l’agente inglese Neil (Robert Pattinson), Il Protagonista si troverà dunque coinvolto in un particolare intrigo internazionale che andrà ad implicare le sorti personali dello stesso Sator, oltre a quelle della sua succube consorte Kat (Elizabeth Debicki), esperta d’arte, e del loro bambino… La compiuta e “sana” spettacolarità propria di Tenet, richiama, almeno riporto la mia personale sensazione, le pellicole d’antan con protagonista l’agente segreto al servizio di Sua Maestà (con licenza d’uccidere) ed è frutto, riprendendo quanto su scritto, del lavoro sinergico fra fotografia, montaggio e colonna sonora, senza dimenticare l’attento lavoro su scenografia (Nathan Crowley) e costumi (Jeffrey Kurland) e l’incisiva composizione registica di Nolan, il quale lavora per sottrazione, rimarca gli sguardi silenti, i movimenti, le espressioni facciali, rende scarni i dialoghi, insiste su particolari inquadrature, ma anche primi piani, sempre nell’intenzione di coinvolgere gli spettatori all’interno di un “qui ed ora” palpitante e vissuto.

Fra le sequenze più adrenaliniche, oltre quella iniziale, certamente si possono menzionare l’irruzione al deposito dell’aeroporto di Oslo, un particolare inseguimento in auto “all’indietro” e l’individuazione del nascondiglio relativo all’ultimo tassello dell’algoritmo, dove la visualizzazione dell’entropia temporale delinea una mirabile fascinazione visiva; quanto descritto non deve però offuscare un elemento che scaturisce comunque nel corso della narrazione, anche se non si può fare a meno di notare quanto le psicologie dei personaggi siano per lo più abbozzate, ovvero l’umanità, il fattore umano: l’uomo, l’essere umano, calato in una situazione di imminente e costante pericolo, limitato nel suo incedere da “qualcosa” o “qualcuno” che lo accerchia e lo sovrasta, si trova sempre e comunque al centro della narrazione e ne viene messa a nudo la fragilità di fronte ad un determinato evento.
Con la sua attività il singolo individuo, eventualmente anche di concerto con i propri simili, può attuare determinate attività nel presente, a loro volta legate a doppio filo ad accadimenti avvenuti nel passato e che andranno a ripercuotersi nel futuro: i tre piani temporali di per sé sono già interscambiabili, per cui, come si ipotizza nel film, poter intervenire sulla loro inversione, lungi dal costituire il classico “salto in avanti o indietro, andata e ritorno”, può certo costituire una potente arma a disposizione per dar vita ad un inedito conflitto mondiale, col quale porre fine all’esistenza di un mondo già devastato da ignoranza, ignavia, indifferenza, nello sfruttare ogni grammo di risorsa possibile, senza alcun criterio che vada al di là del mero profitto, infischiandosene delle conseguenze per quanti si troveranno a gestire sempre più inedite emergenze.

L’azione risulta dunque frammentata in diverse misure temporali, collegate a loro volta al luogo in cui essa andrà a svolgersi ed infine intrecciate attraverso il raffinato ed esaustivo lavoro di montaggio, il quale consegue non solo lo scopo di farle congiungere da un punto di vista narrativo, almeno in senso figurato, ma, soprattutto, offre opportuno risalto alla soggettività di ogni singolo atto, idoneo ad assumere valenza collettiva relativamente alle sue conseguenze: “Salviamo il mondo da quello che poteva succedere, il mondo non lo saprà, ma anche se lo sapesse non gli importerebbe.
A nessuno importa della bomba che non è esplosa, ma solo di quella che è esplosa.
E’ la bomba che non è esplosa il pericolo che nessuno sapeva fosse reale.
Quella è la bomba che può cambiare il mondo”.
In tale ambito anche i sentimenti possono trovare spazio e fare la differenza, ma l’amore andrà necessariamente a sublimarsi in qualcosa di più grande, votato all’universalità nel superare il limite individualistico: “i problemi di tre piccole persone come noi non contano in questa immensa tragedia” (Rick Blaine, il mitico Bogie, in Casablanca, le cui battute conclusive sulla nascita di una bella amicizia, o sulla sua fine, colpa dei paradossi temporali, vengono citate in un dialogo fra il Protagonista e Neil). Nel concludere, menzionando le più che valide interpretazioni di Washington e Pattinson, Tenet può considerarsi un godibile e divertente film d’intrattenimento, una volta fatti i conti con l’astrusa plausibilità e lasciandosi semplicemente andare all’incedere degli eventi, come scritto ad inizio articolo; Nolan si diverte nel confezionare un cocktail, agitato non mescolato, di vari generi cinematografici (noir, spionaggio, fantascienza), coordinando classicità e modernità in nome di un cinema, ecco ancora il fattore tempo ad intervenire quale precipua costante, che sa guardare indietro per andare avanti e coinvolgere così gli spettatori in sempre inedite esperienze di visione.
