Il cinema può ancora dar vita ad uno stupore sincero e coinvolgente, tale da avvolgere gli spettatori all’interno di un’atmosfera sospesa fra l’onirico ed il fiabesco, senza comunque dimenticare di lambire le sponde del quotidiano, offrendo quindi opportuna concretezza? E, ancora, nell’adattare un’opera letteraria, è possibile mantenerne vivido e pulsante l’ assunto che le è proprio pur scremando le parti più cupe e drammatiche, concentrando invece il fulcro narrativo su quelle, viceversa, volte maggiormente all’ironia e al guizzo eccentrico? Questi testé descritti sono gli interrogativi balenatimi in mente durante e dopo la visione del gustoso film diretto e sceneggiato (in quest’ultimo caso insieme a Simon Blackwell) da Armando Iannucci, La vita straordinaria di David Copperfield, titolo italiano forse non del tutto indovinato, almeno considerando che quello inglese, The Personal History of David Copperfield, appare già come una dichiarazione d’intenti nel voler prendere filologico contatto con il romanzo d’origine, The Personal History, Adventures, Experience and Observation of David Copperfield the Younger of Blunderstone Rookery (Which He Never Meant to Be Published on Any Account), che il suo autore, Charles Dickens, pubblicò a puntate mensili su un giornale di sua proprietà, fra il 1849 ed il 1850. Le domande di cui sopra hanno trovato infine risposte assertive, in primo luogo per un attento e raffinato lavoro di scrittura e poi per la vivace messa in scena orchestrata dalla regia piuttosto ariosa ed inventiva di Iannucci, che opera in sinergia alle ricercate scenografie (Cristina Casali) ed alla cura riservata riguardo la scelta dei costumi (Suzie Harman e Robert Worley), i cui cromatismi vengono poi valorizzati da una fotografia (Zac Nicholson) incline a rimarcare con cangianti tonalità luoghi e situazioni (l’atmosfera iniziale in quel di Blunderstone, luogo di nascita di David, essenziale ed accogliente, in contrasto con l’aria plumbea, gravida d’ingiustizie e miseria, propria della Londra industriale d’epoca vittoriana).
Rimarchevoli poi la fluidità narrativa assicurata dal montaggio (Nick Audsley e Peter Lambert) e le suadenti interpretazioni attoriali dell’intero cast, la cui multietnicità è certo rilevante. Evidente infatti al proposito il richiamo alla necessità di una diversità quale valore e non in guisa di scriminante all’interno di una società cosmopolita, attualizzando all’oggi, vedi anche il richiamo allo sfruttamento capitalistico delle risorse, umane e non solo. Inoltre si sottolinea come rigidi parametri comportamentali, in nome di un’omologante conformità, tendano a soffocare o comunque ad appiattire l’individualità volta all’integrità di pensiero ed alla correttezza morale, che solo il coraggio e la perseveranza nel mantenere un personale ideale di vita, pur coi necessari adattamenti, potranno preservare. La sceneggiatura, come su scritto, pur con più di una variazione, appare propensa a rispettare, fondamentalmente, l’impalco originale: un David Copperfield ormai adulto (Dev Patel) dal palcoscenico di un teatro inizia a narrare la storia della sua vita, come scritta di suo pugno in un libro, dalla nascita, già orfano di padre, a Blunderstone, con la madre Clara (Morfydd Clark) assistita nel parto dalla affezionata governante Peggotty (Daisy May Cooper), in presenza inoltre della prozia di David, Betsey Trotwood (Tilda Swinton). I primi anni trascorreranno nella spensieratezza, fin quando la madre non farà la conoscenza del tetro e severo Edward Murdstone (Darren Boyd): per evitare incomprensioni e possibili traumi causa l’imminente unione, il bambino andrà a vivere con la famiglia di Peggotty a Yarmouth, il fratello Daniel (Paul Whitehouse) e i suoi figli adottivi, Ham (Anthony Walsh) ed Emily (Aimée Kelly). Una volta rientrato a casa, David verrà a conoscenza delle nozze, ma i disaccordi col patrigno, già influenzato dalla severità dell’arcigna sorella Jane (Gwendoline Christie), oltre che dai ricordi dell’educazione impartitogli a suo tempo, saranno sempre più evidenti, con reazioni anche violente nei confronti delle punizioni a colpi di canna.
Il ragazzino verrà quindi mandato a lavorare alla bottiglieria Murdstone, a Londra, insieme ad altri coetanei, o poco più grandi se non addirittura più piccoli, in condizioni di sfruttamento e miseria, appena confortato dall’ospitalità del bonario ed ilare Mr. Micawber (Peter Capaldi) e della sua famiglia, il quale andrà però presto a conoscere le patrie galere causa i numerosi debiti in pendenza. Quando il patrigno e la di lui sorella si recheranno in fabbrica per comunicargli, senza alcun briciolo di compassione ed umana pietà, la morte dell’amata madre, David si darà alla fuga, trovando rifugio dalla zia Betsey, che condivide la dimora con un lontano cugino, lo stralunato Mr. Dick (Hugh Laurie), convinto che i pensieri del decapitato re Carlo I abbiano trovato dimora nella propria testa. Per David sarà l’inizio di una nuova vita, frequenterà infatti la scuola di Mrs. Strong a Canterbury, grazie a Mr. Wickfield (Benedict Wong), curatore finanziario della zia, che provvederà a pagargli la retta. Conoscerà quindi la figlia del suddetto curatore, Agnes (Rosalind Eleazar) e lo studente James Steerforth (Aneurin Barnard), con cui stringerà sincera amicizia, oltre al mellifluo Uriah Heep (Ben Whishaw), opportunista e serpentino. Ma una volta diplomato ed iniziato il praticantato da procuratore a Londra, allo studio legale Spenlow and Jorkins, innamorandosi perdutamente della figlia del suo datore di lavoro, Dora Spenlow (Morfydd Clark), per David si prospetteranno altre disavventure, che andranno a coinvolgere parenti ed amici, cui farà fronte con la consueta caparbietà, ovviamente annotando sulla carta, come suo solito, ogni evento, connotandolo e tramutandolo in qualcosa di bizzarro e surreale…
Il descritto lavoro di scrittura e regia fa sì che dell’opera di Dickens rimanga intatto quel susseguirsi di situazioni ora comiche, ora tragiche, la confusionaria complessità propria del nostro incedere terreno, che assume, così come nel romanzo, toni autobiografici. Trova infatti risalto il valore della scrittura, egualmente a quello della sua possibile diffusione attraverso l’arte del raccontare, così da fissare definitivamente determinati aspetti della realtà, uniti ai personali ricordi, ma anche di tramandarli alla luce della propria esperienza, nell’eventualità di trasmutarne nella condivisione il pur evidente impatto realistico, mescolando ironia e senso del tragico. L’ostinata determinazione nel perseguire un preciso punto d’arrivo, non certo definitivo, all’interno di un percorso cui non saranno estranee ambasce e privazioni, condividendo il proprio vissuto con quanti si andrà ad incontrare lungo il tragitto, potrà condurre ad una mutazione del corso degli eventi, adattando quest’ultimi alle proprie inclinazioni e ai propri desideri. In un cast dalla portata corale, dove non vi è alcuna nota stonata, risalta l’ interpretazione di Patel nell’offrire al Copperfield adulto quella giovialità nel far fronte ai marosi esistenziali preservando sempre e comunque una sorta d’incanto primigenio, proprio di chi continua ad osservare il mondo come se fosse la prima volta che si aprono gli occhi su di esso, intuendo, sempre e comunque, che vi sia qualcosa da cambiare, ovviando a discriminazioni, sopraffazioni ed ingiustizie. Indimenticabile anche Laurie nei panni del cugino Dick, a dimostrare il labile confine fra follia e genialità nell’adattarsi alla quotidianità ed al suo ripetitivo incedere, e Capaldi ad interpretare l’affabile Mr. Micawber, disadattato in letizia un po’ Cappellaio Matto.
All’interno di un iter narrativo non certo convenzionale, nel cui ambito si stagliano varie “trovate” visive, funzionali a coniugare una ricercata combinazione fra surrealtà e realismo, La vita straordinaria di David Copperfield, egualmente a Dickens, offre uno sguardo lucido e disincantato al contempo su varie problematiche, delineando la visione di una società al cui interno è ancora l’umanità a fare la differenza, prevalendo sugli “ideali” del mero profitto e del progresso fine a se stesso, ma anche su ogni prevaricazione volta a soffocare la propria primigenia essenza. Ovviamente, credo sia stato notato da molti, una trasposizione così libera ed eccentrica, pur nella magnificenza scenica e considerando le superbe prove attoriali, potrebbe far storcere il naso a più di un purista, ma, ad avviso di chi scrive, Iannucci ha centrato il bersaglio, realizzando il “miracolo” di mantenersi fedele al testo pur nella ragionata libertà da quest’ultimo, offrendo in definitiva tanto alla pagina scritta che alla sua visualizzazione cinematografica l’ampio respiro che è proprio di entrambe, il puro piacere di raccontare e di saper coniugare immaginazione e realtà, permettendone la confluenza reciproca. Mi sia concesso un breve inciso personale in chiusura: mentre assistevo, all’interno di una sala cinematografica, al film, veniva elaborato il testo di quello che è divenuto il nuovo DPCM in vigore da qualche giorno per fronteggiare la continua emergenza sanitaria, il quale, fra l’altro, prevede la chiusura fino al 24 novembre di cinema e teatri; non mi permetto di entrare nel merito della decisione, mi auguro sofferta, ma intendo semplicemente offrire la mia testimonianza di utente e spettatore nel rimarcare i sacrifici dei gestori, già afflitti da un calo delle presenze, nel mettere in sicurezza le sale e garantire così una visione tranquilla.
