Presentato, in Concorso, al 70esimo Festival di Berlino, dove il suo protagonista, Elio Germano, ha conseguito l’Orso d’Argento in qualità di miglior attore, Volevo nascondermi, diretto da Giorgio Diritti (anche autore della sceneggiatura, insieme a Tania Pedroni e Fredo Valla), nel narrare la storia di Antonio Ligabue, dell’uomo ancor prima che dell’artista, prende saggiamente le distanze dal film biografico in stile “vita, morte e miracoli”. Delinea infatti al riguardo una visione sfaccettata, incline ad abbracciare per il tramite di stilemi rarefatti ed elegiaci un tormentato percorso esistenziale volto all’affermazione di sé, nella sublimazione artistica di quanto esternato con le proprie opere, quadri principalmente ma anche sculture, materializzazione della ricezione di Ligabue attraverso il suo sguardo su ciò che lo circondava, dall’abbraccio permeante della Natura alla traccia di ogni evento particolare che andasse ad incrociare la sua esistenza, rendendone l’immanenza evocativa nell’ambito della continua ricerca di una condivisione calorosamente umana. Già dalla prima immagine, quando vediamo Ligabue adulto, periodo fascista, sottoposto a visita medica all’interno di una struttura per malati mentali, avvolto da un pesante drappo nero dal quale s’intravede solo l’occhio, Diritti fa sì che la visione dell’artista coincida con quanto recepito dall’obiettivo della macchina da presa, rendendoci così la percezione di un mondo dal quale Ligabue intendeva al contempo isolarsi ed integrarsi, nella sofferta consapevolezza di una diversità caratteriale e comportamentale oltre che fisica, esternata in virtù di un’estrema sensibilità nei confronti di ogni accadimento inconsueto, anche determinati rumori quali un semplice colpo di tosse.
A quanto descritto va poi ad aggiungersi lo strazio di ricordi non certo piacevoli, frammisti al vissuto quotidiano, che sullo schermo prendono la forma di flashback, opportunamente intarsiati in una successione non cronologica, andando così a rendere realisticamente il loro incedere “sussultorio” nella psiche e i conseguenti squassi dell’anima: l’infanzia tormentata, figlio di Elisabetta Costa, un’emigrante italiana, e di padre ignoto, una volta registrato all’anagrafe civile di Vallada Argodina, Svizzera, col cognome della madre, venne abbandonato in un orfanatrofio di Zurigo per essere poi dato in affidamento ad una coppia di anziani contadini; le umilianti punizioni scolastiche (“Questo è il tuo posto”, commenta il maestro dopo averlo rinchiuso in un sacco, insistendo poi “Tu sei un errore. Non meriti di esistere”); l’adolescenza sempre più inquieta, fino all’espulsione dalla Svizzera e il conseguente trasferimento a Gualtieri, un piccolo paese in provincia di Reggio Emilia (di cui era originario Bonfiglio Laccabue, l’uomo sposato dalla madre, matrimonio che comportò la legittimazione di Antonio, il quale poi provvide a mutare il cognome, prendendo le distanze dalla figura paterna), dove, ormai adulto, vivrà ai margini, un capanno sulle rive del Po e lavori saltuari, fino a quando non verrà notato dallo scultore Renato Marino Mazzacurati (Pietro Traldi), che lo prenderà con sé, consentendo che la sua indole artistica, già notata in un istituto rieducativo svizzero (“scarso rendimento ma attitudine al disegno”) potesse finalmente sfociare in una concreta espressività, riprendendosi attraverso la pittura quella comunicatività mancata, vuoi per le difficoltà di comprendere il dialetto locale, vuoi per una reciproca diffidenza.
Ecco che una volta avveratasi la compiuta affermazione artistica del nostro, e relativo riscatto sociale (le prime mostre in paese per poi arrivare nella Capitale, la richiesta di partecipazione ad un documentario, le interviste, gli acquisti “simbolici” di un’inedita e rispettabile posizione, un’auto con tanto di autista, le motociclette, un agognato cappotto), l’iter narrativo tende a ricomporsi verso la linearità, offrendo comunque spazio a quel campo di battaglia che andava a stagliarsi nella sempre angustiata psiche dell’artista, dove andavano a fronteggiarsi due eserciti “l’un contro l’altro armati”, l’anelito di una ricercata e travagliata “normalità” sociale ed i rovelli interiori sempre presenti, le tante paure dal retaggio atavico, quali quella relativa al giudizio altrui contrapposta ad una ritrovata considerazione di sé, lo sfogo della violenza distruttiva verso le realizzazioni che non venivano apprezzate, potendo comunque quasi sempre fare affidamento su pochi e consolidati affetti, dal citato Mazzacurati, passando per la madre di quest’ultimo e non dimenticando l’amico scultore di lapidi Mozzali (Andrea Gherpelli), che si adoperò nel far sì che cessasse l’internamento una volta riconosciutane la “potenzialità artistica”, pur dovendo però spesso fare i conti con le diffidenze pregiudizievoli lungi a morire (l’impossibilità di offrire concretezza all’amore provato verso Cesarina, interpretata da Francesca Manfredini).
Le immagini dei dipinti di Ligabue sullo scorrere dei titoli di coda, con la macchina da presa ad indugiare sui vari particolari, evidenziano la veemenza della creatività artistica, densa di una rabbiosa vitalità ad avallare la portata di un’ispirazione dirompente e febbrile, intesa ad esprimere inoltre, confidando nella Natura quale benigna alleata, la necessità di un anelato, ma non del tutto soddisfatto, contatto umano, riprendendo quanto già scritto nel corso dell’articolo, oltre a costituire un opportuno tramite per declamare il proprio fervore artistico. La camaleontica interpretazione di Germano, intensa e dolente, scevra da manierismi e toni compassionevoli, viene, andando a concludere, esaltata dalla sobria regia di Diritti, la quale, coadiuvata anche dalla fotografia di Matteo Cocco incline a rimarcare l’ombra dell’emarginazione e la luce della creatività, così come risultanti dalle sue opere, enfatizza i naturali scenari della campagna emiliana quali compenetranti compartecipi della personalità di un artista incline ad infondere sensibilmente e dolorosamente alla propria arte un sentore di definitività, sempre nel desiderio di una febbrile condivisione. Quest’ultima renderà una portata umana ed artistica dalla portata tale da superare qualsiasi limite, temporale e non solo, come evidenziato dalla bellissima sequenza finale, espressione di quella libertà a lungo desiderata di mostrarsi così come si è, senza nascondimento alcuno, la realtà di un sogno, il sogno di una realtà, l’incontro fra arte e vita, finalmente insieme a scambiarsi reciproco significato.
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