America, anni 2000. Ryan Bingham (George Clooney), fascino da vendere e sobria eleganza, lavora per una società di consulenza in materia di risorse umane, specializzata nell’assistenza alla cessazione del rapporto di lavoro, ovvero, usando un’espressione gergale, è un “tagliatore di teste”, gli è affidato il delicato compito di provvedere a licenziare i dipendenti ritenuti in esubero, attività che svolge esternando un’apparente comprensione ma in realtà indorando la pillola ricorrendo ad un personale prontuario fra filosofia spicciola e tutto un corollario di frasi fatte, come il classico imbonitore intento ad illustrare la bontà dei prodotti venduti, senza palesare alcuna emozione di fronte allo sgomento di chi, tra mutui in scadenza, figli all’università, incombente carovita, si vede crollare, dopo tanti sacrifici, il mondo davanti. Ryan d’altronde appare refrattario a qualsiasi legame, nei corsi motivazionali che presiede invita metaforicamente a “viaggiare leggero”, è sempre in volo, 322 giorni all’anno, da una città all’altra degli Stati Uniti, la sua casa sono gli aeroporti, “non luoghi” uguali e asettici, al pari dei lussuosi alberghi in cui brevemente soggiorna, ma anche dell’appartamento ad Omaha dove risiede, più simile ad un freddo magazzino; grazie alle varie carte fedeltà di cui è in possesso non deve neanche fare la fila all’imbarco ed anzi la sua massima ambizione sarebbe quella di raggiungere un determinato numero di miglia aeree per divenire titolare di una speciale tessera che gli permetterebbe di entrare a far parte di una sorta di club esclusivo. Ryan ha due sorelle, di cui una prossima al matrimonio, con le quali intrattiene sporadici rapporti telefonici, vive quindi in una sorta di aurea sospensione, appagato del suo status privilegiato, inglobato all’interno di un sistema che gli offre tutto ciò che la tecnologia può mettere a disposizione per rendere l’esistenza più agevole, calore umano a parte.
La possibilità per il nostro di tornare con i piedi per terra verrà prospettata in seguito a due incontri, dapprima con l’ammaliante Alex (Vera Farmiga), anche lei frequentemente in viaggio per affari e non propensa a rapporti duraturi, quindi suo omologo femminile (“pensa a me come se fossi te con una vagina” è la sua risposta a Ryan su come imbastire la loro relazione), e la giovane neolaureata Natalie Keener (Anna Kendrick), appena assunta e già portatrice di novità in azienda, non ben viste da Ryan, che le farà comunque da tutor: d’ora in poi si licenzierà in videoconferenza, al prezzo di un collegamento web, addio alle costose trasferte a carico dell’azienda, tra voli prestigiosi e privilegi vari. Ambedue, per motivi diversi, porteranno Ryan a riflettere sulla propria condotta esistenziale, tanto da riscoprire la rilevanza degli affetti, un percorso di redenzione e ritorno alla vita reale senza premio finale, a parte il ritrovato appagamento materiale, ormai venato da una profonda amarezza: “Stasera molti rientrando a casa saranno salutati da cani saltellanti e figli che strillano. Il loro coniuge gli chiederà come è andata la giornata e stasera si addormenteranno. Le stelle usciranno discrete dai loro nascondigli diurni, e una di quelle luci, appena più luminosa delle altre, sarà l’ala del mio aereo che passa”. Diretto da Jason Reitman, anche autore della sceneggiatura insieme a Sheldon Turner, scritta ispirandosi all’omonimo romanzo di Walter Kim (2001), Tra le nuvole (Up in the air, il titolo originale, può tradursi come “campato in aria” o “in sospeso”, termini che rendono molto bene la filosofia di vita del protagonista) è un film da riscoprire ed apprezzare alla distanza ancor più che alla sua uscita sugli schermi, dopo essere stato presentato al 34mo Toronto International Film Festival ed in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma IV Edizione.
L’ attento lavoro di scrittura, che esalta in particolar modo i bei dialoghi, serrati e sagaci, tanto ironici quanto attraversati spesso da uno sprezzante cinismo, riesce infatti a porre in risalto, sullo sfondo dell’America in piena recessione economica, la tematica, tuttora attuale (verrebbe da scrivere purtroppo), di come i rapporti umani, le relazioni tra le persone, trovino certo agevolazione materiale nell’apporto massiccio offerto dal veloce avanzare della tecnologia (facilità di contatto, accorciamento delle distanze), ma non sempre riescono a smarcarsi da un prorompente individualismo. E’ quanto risulta evidente nella figura di Ryan ottimamente resa da Clooney, che qui mette da parte certe pose da gigione, ora soppiantate da un’ eleganza, recitativa e di presenza scenica, sommessa, malinconica, autoironica, tra charme e malcelato pudore, doti che l’avvicinano al miglior Cary Grant. Uun uomo di successo, apparentemente felice nel misurare la qualità della propria esistenza in base a tutto ciò che il lavoro può garantirgli, privilegi a suon di tessere esclusive e punti fedeltà, il cui bagaglio di emozionalità può stare tranquillamente riposto in quel piccolo trolley che si trascina dietro, nel quale, non a caso, la sagoma ritraente la sorella ed il futuro sposo, da utilizzare nelle foto da scattare nei vari posti in cui andrà a fermarsi per lavoro, andando così a sostituire il viaggio di nozze che i due non possono permettersi, finisce per rappresentare un qualcosa in più, destinato a spiazzare l’ordine meticoloso del suo contenuto. Ma la citata soddisfazione esistenziale a suon di miglia percorse non è altro che il tappeto sotto cui nascondere la polvere di un profondo, malcelato, senso di solitudine, che verrà fuori all’improvviso in virtù di un momentaneo cambio di rotta, l’incontro dapprima con la scafata Alex e subito dopo con l’ingenua ed entusiasta Natalie.
Farmiga e Kendrick, la prima in particolare, con la loro recitazione pongono in risalto le caratteristiche, fisiche e psicologiche, di due donne in apparenza diverse, non fosse altro che per le differenti generazioni d’appartenenza, ma che in fondo dalla vita desiderano le stesse cose, essendo la prima concretizzazione pratica delle aspirazioni della seconda, come testimoniato dalla sequenza in cui ha luogo un dialogo chiarificatore tra di loro, nell’alternanza di toni disillusi ed indomite speranze. Reitman è molto abile nel mettere in scena un’opera che travalica i generi, pur riprendendo certi stilemi della classica commedia sofisticata americana anni ’30-’40, un cocktail, “agitato, non mescolato”, di Frank Capra e George Cukor, aggiornando le tensioni sessuali al nuovo millennio (la splendida sequenza del confronto delle carte di credito tra Ryan ed Alex) ed attingendo anche dal cinema indipendente (ad esempio nel far interpretare i lavoratori che hanno subito il licenziamento da quanti avevano vissuto realmente la tragica esperienza, ma anche nella resa della fotografia o nell’impiego della colonna sonora). Alternando ironia e dramma ed evitando comunque tanto il facile sentimentalismo ricattatore quanto carinerie o prediche moraleggianti, l’autore intende sbatterci in faccia la realtà cosi com’è, spiazzando più volte lo spettatore (i diversi finali che convergeranno verso un’ unica, amara, conclusione), in volo lassù, tra le nuvole, nell’irreale immensità dell’ inconsistenza celeste, sospesi da tutto e da tutti, ma con la cloche rivolta a terra, nella scomposta alternanza tra sicurezza virtuale e quella necessità reale, a volte inconscia, a volte impellente, di mettere radici e fare affidamento sulla bontà di un benvenuto copilota, del quale in fondo tutti abbiamo bisogno, citando in chiusura le parole del protagonista.
Una risposta a "Tra le nuvole (Up in the Air, 2009)"