Si vive una volta sola

(Pianeta Cinema)

Roma, oggi. Il Professor Umberto Gastaldi (Carlo Verdone), medico chirurgo, il suo assistente Corrado Pezzella (Max Tortora), la ferrista Lucia Santilli (Anna Foglietta), l’anestesista Amedeo Lasalandra (Rocco Papaleo), costituiscono un’affiatata equipe che tiene alto il prestigio della clinica privata nella quale esercitano la loro professione, tanto da poter vantare tra i propri pazienti nientepopodimeno che Papa Francesco, ovviamente con ogni cautela relativa alla riservatezza. Se la loro vita professionale appare prodiga di soddisfazioni, l’ambito privato invece risulta essere piuttosto avaro al riguardo: Gastaldi, divorziato, è tormentato dalle ripercussioni che potrebbe avere sulla propria onorabilità la condotta della giovane figlia Tina (Mariana Falace), discinta soubrette televisiva in ascesa, Pezzella sembra vivere stancamente il rapporto con la moglie, avallando un’ordinaria routine e non disprezzando eventuali avventure, Lasalandra, anche lui divorziato, cerca di alimentare “gli ultimi fuochi”, mentre Santilli conduce con trasporto e prorompente passione la relazione con Xabier (Sergio Múñiz), almeno quando questi, lavorante all’estero, rientra in Italia. Unico rimedio per venir fuori dalle sabbie mobili dell’impasse esistenziale, l’orchestrazione di tutta una serie di ben congegnate burle perpetrate puntualmente ai danni di Amedeo, che con la sua visione disincantata, un po’ da “disadattato in letizia”, sembra fungere da opportuno refugium peccatorum. Ma una volta che i quattro si sottopongono ai periodici esami di controllo una brutta notizia andrà a sconvolgere la consueta quotidianità: proprio Amedeo risulta affetto da un tumore in stadio ormai avanzato, tanto da prospettare una fine imminente. Occorrerà dunque avvertirlo, col dovuto tatto, ed una buona occasione potrebbe essere quella di assecondarne il desiderio di organizzare una vacanza tutti insieme in Puglia…

Carlo Verdoone, Anna Foglietta, Max Tortora (Movieplayer)

Un tempo, se la memoria non mi inganna, quando un regista metteva in scena un’opera avulsa, del tutto o in parte, dai propri stilemi narrativi e figurativi, senza che si prospettasse una concreta innovazione bensì qualcosa di forzato o comunque non del tutto rientrante nelle corde dell’autore, si soleva dire che questi “si era preso una vacanza”: bene, quanto ora scritto credo possa riguardare anche l’ultima fatica di Carlo Verdone, regista e sceneggiatore (insieme a Giovanni Veronesi e Pasquale Plastino), nonché attore protagonista, di Si vive una volta sola, con l’inciso però che tale periodo di ferie poteva anche prenderselo lontano dai set cinematografici, considerando come il film soffra di un lavoro di scrittura sciatto, stantio (varie gag sono riciclate da altri film di Veronesi, vedi quella dell’ “hot dog umano”), stereotipato riguardo le situazioni in genere e i personaggi femminili in particolare (di solito invece valorizzati da Verdone), con qualche volgarità al riguardo fin troppo insistita, vedi il continuo ed imbarazzante primo piano del fondoschiena di Mariana Falace, riducendo così la femminilità ad un particolare anatomico, nient’altro che una sorta di product placement, a rinforzo di quanto già propinato relativamente a vari prodotti commerciali nel corso della narrazione, nel cui novero, visto il trattamento da depliant turistico che le riserva la fotografia, va compresa anche la Regione Puglia. La regia di Verdone, per quanto possa apparire a volte distratta o comunque meno incisiva rispetto al solito, fortunatamente riserva ancora una certa attenzione alle interpretazioni attoriali, anche considerando la rilevanza dei dialoghi a sostenere una concreta coralità dell’iter narrativo, ma il tutto appare forzato e costretto all’interno di un percorso prestabilito, che condurrà al più che intuibile finale.

Rocco Papaleo, Foglietta, Tortora, Verdone (Movieplayer)

Le burle messe in atto dai tre contro Amedeo non suscitano mai una risata sincera, ma un lieve sorriso, quando va bene, e, riporto la mia primaria sensazione, più che gli Amici miei di monicelliana (e germiana) memoria ricordano gli svagati fuoricorso della vita protagonisti de I laureati (Leonardo Pieraccioni, 1995). Ricerca di un senso esistenziale, volto a conferire alla vita il corso che si vorrebbe seguisse, toni goliardici, senso dell’amicizia, disillusione, l’amarezza di sentirsi ormai fuori da un mondo che procede ad un ritmo tutto suo e sempre più sostenuto, ma anche il tema della morte a farsi possibile ed improvvisa intrusa in quella dimensione che si sono creati a propria immagine e somiglianza: tutto ciò va a costituire un sotteso fil rouge che credo possa legare fra loro gli antieroi di Monicelli, i giovinastri di Pieraccioni e la confraternita della celia verdoniana, ma se i primi con le loro zingarate si facevano beffa di tutto e di tutti, a partire da loro stessi, gli ultimi due non tendono ad altro che a sublimare l’arte del cazzeggio, pardon, quanto basta a superare l’amarezza di una giornata andata storta, senza riuscire a gestire concretamente tale escamotage goliardico per affrontare comunque la vita, restandone inevitabilmente sopraffatti. Andando a concludere credo che Verdone, di cui sono ammiratore fin dagli esordi televisivi, non abbia ancora fatto pace col proprio io più intimo e profondo, in particolare da quando, col trascorrere inevitabile degli anni, ha trovato una naturale accentuazione l’innata vena malincomica, come è stata più volte definita, quel tocco dolente appena velato da un’ ombra di cinismo nel connotare i mutamenti del costume, in particolare nell’ambito dei rapporti umani, fra rassegnazione e presa di coscienza nel non poter cambiare l’ordine delle cose ma semplicemente prenderne atto o provare a conferirgli una diversa connotazione.

(Agenzia Dire)

Da un po’ di tempo a questa parte (almeno dal 2010, con Io, loro e Lara), nel caratterizzare le vicende narrate ha quindi conferito, per sua stessa ammissione, maggiore spazio alle situazioni nell’ambito della messa in scena rispetto all’accentuata focalizzazione dei personaggi, cercando, ad ogni nuovo titolo proposto, di porre in essere una garbata mediazione fra quanto ritenesse il pubblico si aspettasse da lui e ciò che invece era andato a mutare nella sua persona, ovvero un sentirsi inadeguato o, meglio, spiazzato, di fronte ai repentini cambiamenti di una società ormai incapace di ridere dei suoi stessi malanni e, soprattutto, incline ad autoassolversi. Infatti è anche evidente la volontà di lasciare più spazio ai comprimari, rendendosi come attore maschera dimessa e sottotono, dolente e rassegnato spettatore di determinati eventi. Forse il passo successivo, a parere di chi scrive (e che da cinefilo onnivoro, sostengo da un po’ di tempo), potrebbe essere quello di provare a restare dietro la macchina da presa, fare leva soprattutto sulla sua indubbia sensibilità registica ed affidare ad un alter ego vezzi ed idiosincrasie in odor di classicità, proprie di chi affronta il mondo e le varie vicissitudini esistenziali con sguardo ancora sognante, fra nevrosi e disincanto, riportando finalmente alla luce quel tocco tipicamente verdoniano atto a mettere in scena garbata satira, malinconia ed assenza di volgarità (o comunque un suo uso funzionale, legato al reale), fra toni grotteschi ed amari, atti a supportare quel minimo di teatralità che la vita spesso richiede per poter affrontare il quotidiano ed andare avanti.


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