Titolo d’apertura, in Concorso, alla 78ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, dove Penélope Cruz ha ricevuto la Coppa Volpi per la Miglior Interpretazione Femminile, Madres paralelas, scritto e diretto da Pedro Almodóvar, è un film che non solo rimarca la propensione del regista verso toni maggiormente intimistici, ponendo come sempre in risalto le figure femminili, ma ne evidenzia anche un sentito impegno politico, andando a creare nel corso della narrazione un concreto e suadente parallelismo fra l’idea di maternità e quella di memoria storica, apportatrici entrambe di un opportuno senso d’identità e reminiscenza delle proprie radici, verso le quali occorre volgere più di uno sguardo, così da comprendere e soppesare ogni sfaccettatura del presente ed animare al contempo un concreto senso di speranza rivolto verso il futuro: Nessuna storia è muta. Per quanto la brucino, per quanto la spezzino, per quanto la falsifichino, la storia umana si rifiuta di stare zitta è la frase dello scrittore uruguaiano Eduardo Galeano riportata infatti in didascalia subito dopo la bellissima immagine che va a chiudere Madres paralelas, a suggello di una sequenza che prende il via dagli occhi di una bambina intenta ad osservare i resti delle vittime, date per scomparse, dei falangisti del regime di Franco, cui si erano opposte, propendendo alla visualizzazione di una paventata ripetizione di quanto accaduto, affidando quindi alle nuove generazioni il passaggio di testimone dell’impegno affinché invece non possa mai trovare riproposizione.
La narrazione prende il via dall’incontro lavorativo, la realizzazione di un servizio fotografico, tra la fotografa Janis (Penélope Cruz) e l’antropologo forense Arturo (Israel Elejalde): la prima narra al secondo di come il suo bisnonno, egualmente ad altri desaparecidos all’epoca della guerra civile spagnola, uccisi dai franchisti, potrebbe trovarsi sepolto in una fossa comune, nella campagna di un villaggio fuori Madrid. Arturo, ricordando la rilevanza della legge sulla Memoria Storica emanata nel corso del governo Zapatero, si propone di organizzare gli scavi, affidandosi anche ad una associazione di volontariato di cui fa parte. I due iniziano una relazione, destinata ad interrompersi una volta che Janis rivelerà ad Arturo di aspettare un bambino: l’uomo infatti, non ha il coraggio di lasciare la moglie malata di cancro, appena agli inizi del percorso chemioterapico, per intraprendere un nuovo percorso di vita. Janis, restia ad abortire, si dimostra risoluta ad affrontare da sola la gravidanza. Al momento del parto avrà come compagna di stanza in ospedale la giovane Ana (Milena Smit), minorenne, anch’essa in procinto di partorire, con la quale stringerà amicizia, in vista di un legame che sarà destinato a farsi sempre più forte una volta venute al mondo le rispettive bambine, anche perché la ragazza ha un rapporto coi genitori, separati, che poggia sul reciproco conflitto, in particolare la madre Teresa (Aitana Sánchez-Gijón) appare più propensa a coltivare il proprio ego di attrice teatrale intenta alla propria affermazione divistica che ad avviare un costruttivo confronto con la figlia…
Almodóvar allestisce con mirabile cura formale e scioltezza narrativa (gli intensi e frequenti primi piani, l’avvio del flashback all’aprirsi di una porta) un melodramma sicuramente a tinte forti (anche visivamente, vedi fra le accese tonalità pastello la predominanza del colore rosso, esaltato dalla fotografia di José Luis Alcaine), il cui procedere, nel susseguirsi di alterne vicende, appare contrassegnato dall’incedere incalzante, mai invasivo, del commento sonoro allestito da Alberto Iglesias, che personalmente mi ha riportato in mente certe atmosfere hitchcockiane. Il tutto è poi impreziosito dalla vivida e vibrante interpretazione di Penélope Cruz, una madre quarantenne che lotta per una verità collettiva, il cui animo verrà profondamente squassato dal dolore nell’apprendere ed in particolare nel condividere una tragica verità personale. Da non sottovalutare la sorprendente ed altrettanto intensa Milena Smit nel conferire corpo ed anima alle ansie proprie di una giovane donna che, incinta non per scelta, sembra non avere né un passato da ricordare né un presente da vivere, attendendo un generico futuro, come da insegnamento paterno. Proprio in virtù del confronto con Janis, anche aspro, Ana potrà infine giungere ad acquisire una concreta e personale sicurezza esistenziale, fra emancipazione ed autodeterminazione. Di rilievo anche l’interpretazione profusa da Aitana Sánchez-Gijón nei panni di Teresa, l’egoista madre di Ana, volta a ricercare sul palcoscenico quell’affermazione mancata nella vita di ogni giorno, familiare in primo luogo, così come si rivede sempre con piacere Rossy de Palma, una delle attrici predilette di Almodóvar, a conferire arguzia ed ironia al personaggio di Elena, datrice di lavoro ed amica di Janis. Metaforicamente opache le figure maschili, con Arturo ben reso da Elejalde nell’esternare pavidità e rigurgiti di stolido orgoglio maschile, anche se nel corso della narrazione anche per lui vi saranno dei mutamenti in seguito alle vicende in cui andrà ad incorrere.
La melodrammaticità di cui si è scritto nel corso dell’articolo nel suo stampo classico va ad attingere a vari stilemi pop, filmici e non, ormai consolidati nel cinema del regista iberico ed appare comunque non solo in veste più sobria rispetto al consueto ma va anche gradualmente a stemperarsi pur inserendo mano a mano sempre più elementi atti a connotarla nel corso della narrazione, dal citato significato da conferire alla maternità alla spontanea confluenza del profondo affetto amicale fra le due donne verso una deflagrazione sessuale, destinata però ad essere circoscritta nell’alveo di una sorta di compensazione emotiva mutuata dalle circostanze. Elementi che potrebbero apparire ridondanti o comunque superflui ai fini del racconto filmico, ma che contribuiscono, almeno riporto la mia personale sensazione, a creare quel senso d’indeterminatezza inerente a chi è alla ricerca di una caratterizzazione da conferire all’identità personale e sociale, così come di un senso “definitivo” da attribuire al proprio vissuto e alla sua continuità, per poi arrivare alla drammaticità reale, tangibile, di un passato che diviene presente e futuro insieme, riprendendo quanto scritto. E qui, ancora prima che le citate parole di Galeano, mi sovvengono in mente quelle esternate da Pier Paolo Pasolini nel settembre del 1962 su Vie nuove, cui affido la conclusione dell’articolo: (…) (…) Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società.
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