Roma, 14 giugno 1800, Chiesa di S. Agnese in Agone. Il monsignore Governatore della città (Aldo Fabrizi), nel corso di una funzione chiacchiera confidenzialmente col Padreterno, fra un Ave, un Padre e un Gloria, esortandolo a far sì che Napoleone venga sconfitto in quel di Marengo, dove è in pieno svolgimento la battaglia con le truppe austriache. Le sfere celesti sembrano dargli ascolto: le notizie portate da un messo vedono infatti il generale corso andare incontro ad una sonora sconfitta, anche se poi nel corso della giornata il vento volgerà in suo favore. Intanto il pittore Mario Cavaradossi (Gigi Proietti), che nonostante i suoi trascorsi parigini si dichiara artista alieno da passioni politiche, è intento a completare un affresco all’interno della chiesa, commentando sarcastico: “Certo che se il Padreterno li sente, vuol dire proprio che non esiste…”. Il rimbombo di una cannonata fa presumere che da Castel S. Angelo possa essere fuggito il prigioniero politico Cesare Angelotti (Umberto Orsini), per il quale si era scomodata nel venire a Roma la Regina di Napoli, giusto per vederlo impiccare: eccolo giungere in chiesa, travestito da donna, cercando l’aiuto di Cavaradossi, il quale si prodigherà al riguardo, rivelando tendenze giacobine, celate dietro la maschera della bonarietà e dell’ostentato disinteresse. Ma un’altra presenza si avvicenderà presto nel luogo sacro, al solito orario come ormai d’abitudine, la cantante Floria Tosca (Monica Vitti), tanto timorata di Dio quanto focosa amante dell’artista. La donna andrà ad insospettirsi degli inconsueti atteggiamenti del “suo bel levriero”, temendo un tradimento, ipotesi che con un astuto piano verrà suffragata dal temibile barone Scarpia (Vittorio Gassman), a capo della polizia pontificia, facendo sì che la donna lo conduca insieme ai suoi sgherri nella casa in campagna dove Cavaradossi e Angelotti si sono rifugiati.
La situazione quindi andrà precipitando, il rivoluzionario preferirà suicidarsi piuttosto che finire nelle mani dei gendarmi e l’artista che gli ha dato asilo sarà condotto a Castel S. Angelo, dove l’attende la condanna a morte. Ancora una volta Tosca sembra destinata a dare una possibile svolta alla drammatica situazione, Scarpia infatti non è certo indifferente al suo fascino…Scritto e diretto da Luigi Magni, liberamente tratto dal dramma Devant lui tombait toute une ville composto nel 1887 da Victorien Sardou, poi trasposto in musica (1900) da Giacomo Puccini su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, La Tosca è un film che, per quanto possa apparire forse meno equilibrato rispetto ad altre realizzazioni del regista romano (penso soprattutto a Nell’anno del Signore, 1969, ma anche a In nome del Papa Re, 1977), ne conferma comunque l’abilità nel conciliare la spettacolarità propria di un accurato affresco storico con un calibrato senso drammaturgico. Rimarchevole inoltre l’affabulante percorso narrativo, teso, ancora una volta, a trasporre i vari accadimenti sempre ad altezza di essere umano, rendendo evidente come gli abusi del potere costituito (ecclesiastico e civile), per quanto circoscritti all’epoca della loro messa in atto, fossero ancora radicati nell’attualità di ogni giorno. Una sorta di lascito obbligatorio, all’insegna della sopraffazione espressa dai più forti verso i più deboli, ovvero coloro che andranno a comprendere troppo tardi quanto sia necessaria un’azione comune per mutare l’ordine delle cose, non essendo sufficiente l’attività di singoli gruppi o di qualche individuo intento a combattere l’ingiustizia con modi sottili, insinuandosi all’interno del sistema, nel nome di ideali manifesti o sottesi.
Magni ne La Tosca non solo mette alla berlina i dialoghi pomposi del dramma originario, sostituendoli con altri intrisi di quell’ironia sferzante e dissacrante che gli era propria, ma va inoltre a sostituire le note arie pucciniane con una serie di canzoni scritte di suo pugno e musicate da Armando Trovajoli, con il Coro dei Cantori Moderni di Alessandro Alessandroni e Pietro Carapellucci. I testi avallano cinico sarcasmo e un vago senso di disillusione, da, citando alcune canzoni, Mi madre è morta tisica, tormentone intonato dalla Tosca, a Nun je da’ retta Roma, canto disperato di Cavaradossi, con più di un riferimento alla realtà socio-politica italiana degli anni ’70 (evidente il richiamo a Pinelli nel verso Se invece poi te dicono che un morto s’è ammazzato, allora è segno certo che l’hanno assassinato), rivolto alla città di Roma, perché insorga una volta per tutte, sentendosi dare come risposta una serie di ameni stornelli, meglio attendere tempi migliori, non c’è fretta, senza dimenticare il Canto dei derelitti (una moltitudine di poveracci rendono grazie al Signore, a modo loro: Hai fatto bene tutto il creato, te sei sbagliato solo con me…), che, commenta Scarpia, resterà inascoltato, lassù in cielo amano i solisti, o Tremate lo stesso…, spedita marcia instaurante, non importi se si attenti o meno allo stato e all’altare, un clima di terrore fra la folla sempre scettica ed indifferente. La regia di Magni appare al solito piuttosto agile e “disinvolta”, attenta a valorizzare le scenografie offerte dalle location in esterni ed interni (piuttosto ricercato al riguardo il lavoro svolto da Lucia Mirisola, che ha anche realizzato, con l’assistenza di Maurizio Millenotti, i bei costumi), già messe in risalto dalla valida fotografia di Franco di Giacomo, così come le pregevoli prestazioni attoriali: il risultato è una commedia che ha dell’inedito nell’ambito della nostra cinematografia, offrendo in definitiva un impatto piacevolmente teatrale, da rivista musicale, ammantata dal fascino proprio della resa cinematografica di una spettacolarità sempre funzionale al narrato, riprendendo quanto già scritto.
Soffermandosi sulle prove dei principali protagonisti, la Vitti, cui Magni rivolge intensi primi piani, è semplicemente stupenda nei panni della “mistica sensuale” Tosca, rendendo con ironia la gioiosità e giocosità carnale propria del personaggio, così come asseconda nel finale un sentito registro drammatico, fra improvviso disincanto e profonda amarezza, pur mantenendo un tono a suo modo irridente (all’avvertenza di uno sgherro di Scarpia nel vederla scavalcare un parapetto di Castel S. Angelo, “Ma bada che caschi”, risponde rassegnata “Non casco, me butto…”); Proietti è particolarmente a suo agio nelle vesti del rivoluzionario, in pectore, Cavaradossi, assecondando anche nel canto il suo prorompente estro istrionico, sempre mitigato da una certa bonomia congiunta ad una sapida levità dei toni (“Vorrei vincere nella storia senza essere vinto sul patibolo” è la sua giustificazione nell’assecondare la rivolta in sordina, per il tramite della propria arte), anche nei momenti più drammatici (“Mortacci vostri…Meno male che erano finti…”, le ultime parole prima di morire fucilato, convinto, istruito da Tosca, che fosse tutta finzione). Da non dimenticare poi i modi melliflui e serpentini al contempo dello Scarpia reso da Gassman, nella mefistofelica sicumera che gli viene assicurata dal potere, del quale comunque non è mai pago (mirabile la sequenza in cui apre un segreto tabernacolo, al cui interno custodisce una mitra: “Voglio il papato!”), il sempre affabile Fabrizi, il valente Orsini e la coppia Fiorenzo Fiorentini – Gianni Bonagura ad interpretare, rispettivamente, i brigadieri Spoletta e Sciarrone.
La Tosca, andando a concludere, è certo un’opera da riscoprire e conseguentemente rivalutare all’interno della filmografia di Magni, vuoi perché risalta sempre e comunque sullo sfondo come il cineasta abbia saputo adattare al mutare dei tempi la famosa locuzione Storia maestra di vita, attribuita a Cicerone, nella beffarda consapevolezza che l’unico insegnamento appreso al riguardo dall’umanità nel corso dei secoli venga rappresentato dalla certezza di non voler apprendere alcunché, vuoi perché vivida testimonianza di un cinema italiano che non lesinava coraggio ed inventiva nel mettere in scena con sagacia determinate intuizioni, servendosi dei generi e ponendoli al servizio della narrazione, connotandoli di maestria ed eleganza.
Già pubblicato su Diari di Cineclub N.90- Gennaio 2021
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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