Gioia Tauro, provincia di Reggio Calabria, tempi nostri. Chiara Guerrasio (Swamy Rotolo), 15 anni, conduce un’esistenza del tutto comune a quella di molte altre coetanee, scuola, palestra, uscite con le amiche del cuore per ritrovarsi a chiacchierare sul lungomare, le prime trasgressioni, ad esempio la sigaretta elettronica. La ragazzina, dal carattere già piuttosto fermo e poco remissivo, è circondata dall’affetto della sua famiglia, papà Claudio (Claudio Rotolo), mamma Carmela (Carmela Fumo), la piccola Giorgia (Giorgia Rotolo), la primogenita Giulia (Grecia Rotolo), che si appresta a festeggiare, attorniata da familiari e amici, il compimento della maggiore età, all’interno di un ristorante, fra cibo in abbondanza, brindisi, musica ed estemporanee gare di ballo. Nella stessa sera però, una serie di accadimenti arriva a turbare la spensieratezza di Chiara, una discussione fra i genitori, il padre che si allontana da casa scavalcando il muro del giardino, mentre subito dopo l’auto di famiglia prende fuoco, quanto basta perché la ragazza inizi a porsi tutta una serie di domande, tacitate subito dalla madre, che, al pari degli altri parenti, cerca di tranquillizzarla sostenendo come la situazione sia sotto controllo.
Gli interrogativi troveranno risposta grazie a un notiziario sul web: Claudio Guerrasio si è sottratto ad un ordine di custodia cautelare del giudice, reo di associazione a delinquere per spaccio di stupefacenti, reato aggravato dall’accusa di agire per conto delle cosche ‘ndranghetiste, “favorendone il potere economico transnazionale”. Una verità quella scoperta da Chiara che, dopo l’inevitabile turbamento emozionale, conseguente anche dal volere a tutti i costi venire a contatto con una realtà la cui conoscenza le era stata finora negata, contrariamente che alla sorella primogenita, la condurrà verso un’inedita consapevolezza esistenziale, conquistando, anche amaramente, la libertà di scegliere quale futuro possa essere per lei più idoneo, in nome di una concreta autodeterminazione. Presentato alla 52ma Quinzaine des réalisateurs del 74mo Festival di Cannes, dove ha conseguito il Premio Label Europa Cinema, riconoscimento cui va ad aggiungersi il recente David di Donatello ottenuto da Swamy Rotolo come Miglior attrice Protagonista, A Chiara, scritto e diretto da Jonas Carpignano, rappresenta, per ammissione stessa dell’autore, il completamento di un trittico che ha avuto inizio con Mediterranea (2015) ed è poi proseguito due anni più tardi con A Ciambra, andando quindi ad offrire visualizzazione a tre problematiche sociali, rispettivamente l’accoglienza dei migranti e la nascita della loro comunità, la residenza stanziale dei Rom all’interno di un degradato quartiere ed infine la polvere nascosta sotto il tappeto dell’apparenza propria della “buona borghesia”.
La città di Gioia Tauro, più che caratterizzarsi riguardo l’infiltrazione delinquenziale nell’ambito quotidiano, viene dunque a rendersi simbolo di un qualsivoglia territorio dove la malevola combinazione tra scarsa attenzione istituzionale e mantenimento “sacrale” di atavici comportamenti appare idonea a creare non pochi disagi, in particolare nei riguardi delle nuove generazioni, spesso costrette in una dimensione che le lega all’ambiente in cui sono nate e cresciute, ma al contempo ne fa scaturire una sottesa volontà di ribellarsi, spingendosi con difficoltà a cercare una strada autonoma, che permetta loro di esprimere al meglio la propria essenza vitale e le proprie aspirazioni esistenziali. Carpignano suffraga con ancora maggiore convinzione stilemi registici volti al realismo, avvicinandosi a quelli propri del documentario, all’interno di una rappresentazione del tutto personale, intesa a visualizzare sullo schermo, senza alcuna mediazione “estranea” che non sia il filtro della sceneggiatura, la realtà così com’è, mutuata dallo sguardo dell’adolescente Chiara, interpretata con ruvido e sincero trasporto immedesimativo da Swamy Rotolo. Frequente l’uso della macchina a mano, particolarmente mobile, protesa ad avvicinarsi sempre più ai volti delle persone così come ad ogni particolare della realtà circostante, con spirito antropologico più che sociologico, lungi da toni giudicanti, pietistici o, peggio, compiaciuti, rimarcando con estrema sensibilità ogni sconvolgimento emozionale cui andrà incontro la protagonista ed arrivando a lambire anche le sponde del thriller psicologico, coadiuvato al riguardo dalla fotografia di Tim Curtin, mutuante fra luce ed ombra.
Emblematica al riguardo la sequenza, avvolta in un limbo onirico, in cui Chiara scopre il rifugio costruito proprio sotto casa, con accesso dall’interno come dall’esterno, intesa ad offrire congrua metafora dell’esistenza di un vero e proprio mondo “alternativo” rispetto a quello in cui lei ha vissuto finora, celato dalla spessa coltre della rispettabilità e della connivenza omertosa in nome dei legami di sangue, dal quale verrà fuori una volta che deciderà di vivere determinate sensazioni sulla propria pelle, dopo essersi anche confrontata con la idolatrata figura paterna. Giungerà infine a scegliere liberamente quella strada che le era stata imposta dai servizi sociali, pur nell’obiettivo di salvaguardarne un sano percorso formativo, nell’ottemperanza di una legge statale volta a far sì che i minori vengano allontanati dalle famiglie in odore di ‘ndrangheta. Caratterizzato da una colonna sonora (Dan Romer, Ben Zeitlin) smaccatamente pop, per lo più diegetica, spesso confluente coi dialoghi o i rumori ambientali, quindi rivolta a rendere l’emozionalità dei personaggi nella sua purezza, senza “moleste” sottolineature, A Chiara delinea un andamento narrativo filtrato dallo sguardo della ragazzina e reso sullo schermo attraverso l’obiettivo della macchina da presa, focalizzando l’azione del momento, anche in virtù di un montaggio piuttosto serrato (Affonso Gonçalves), rendendoci partecipi di tutte le contraddizioni ed ambiguità proprie di una personalità in tumultuosa formazione, come se si stessero verificando “qui ed ora”, affidandosi riguardo la costruzione complessiva, pur miscelando finzione cinematografica e realtà fenomenica, alla casualità, all’accadimento materializzatosi dinnanzi la macchina da presa ed offerto alla nostra elaborazione.
Anche se in qualche momento si può notare un cedimento didascalico (in particolare nella sequenza in cui si illustra l’intervento dei servizi sociali), A Chiara centra l’obiettivo di porre in scena con lucidità, rimarcata dall’essenzialità rappresentativa, quest’ultima volta ad estraniarsi, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, da note accomodanti, mediazioni o sguardi complici, un racconto di formazione, inteso a descrivere una dolente presa di contatto con il reale, rendendo tangibile un disagio interiore che gradualmente trova esteriorizzazione per il tramite del confronto con le mitizzate, in certo qual senso, figure familiari, fino a giungere ad una presa di coscienza idonea a a rendere percepibile la propria vera essenza ed adattarla, anche dolorosamente, all’esistenza che si è liberamente scelto di vivere. Non a caso, credo, il film presenta una struttura narrativa volta alla circolarità, con una sequenza iniziale del tutto speculare a quella finale, conclamandone anche un rapporto di reciprocità: appaiono infatti idonee a sottolineare le differenze fra due distinte realtà sociali, certo, ma anche, essenzialmente, a rimarcare il diverso offrirsi alla vita della Chiara quindicenne, già spontaneamente riottosa nei confronti di determinati atteggiamenti retrogradi, fra maschilismo e patriarcato, espressi nei suoi confronti, tanto come “bambina” quanto come figura femminile in sé, e quella ora instradata verso la maturità, garantita non solo dal conseguimento della maggiore età, ma anche, se non soprattutto, dal raggiungimento di una piena consapevolezza del proprio essere morale, sociale ed esistenziale, protesa opportunamente verso un concreto domani. Lo racconterò con un sospiro da qualche parte tra molti anni: due strade divergevano in un bosco ed io – io presi la meno battuta, e questo ha fatto tutta la differenza (versi estratti dalla poesia The Road no Taken, Robert Frost, 1916, raccolta Mountain Interval).
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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