Los Angeles, Stati Uniti d’America, giorni nostri. Gli ex coniugi Cotton, David (George Clooney), architetto, e Georgia (Julia Roberts), gallerista, divorziati ormai da vent’anni, chiacchierando con dei colleghi rimembrano, ciascuno a modo proprio, offrendo rilevanza o meno a determinati accadimenti, permeandoli di una differente connotazione, quei particolari momenti che al tempo contribuirono a far scoccare la scintilla amorosa insieme ad altri che, alla fine prevalenti, la spensero repentinamente. Ormai i due appaiono propensi a coltivare un odio reciproco, appena smorzato dal profondo amore esternato nei riguardi della figlia Lily (Kaitlyn Dever), prossima alla laurea in Legge, alla cui cerimonia di consegna i genitori non potranno certo mancare, offrendole poi come dono per il raggiunto traguardo un viaggio a Bali, meta che la ragazza raggiungerà insieme alla cara amica Loren Butler (Bille Lourd), quest’ultima incline a prendere la vita con…spirito. Trentasette giorni dopo, David e Georgia ricevono una mail da Lily, con la quale viene loro comunicato di come abbia conosciuto un locale pescatore di alghe, Gede (Maxime Bouttier), e che intende sposarlo, stabilendosi sull’isola e rinunciando quindi alla carriera forense; i genitori concorderanno allora di sotterrare l’ascia di guerra, concordando una strategia comune per impedire alla figlia di commettere il loro identico errore. Si ritroveranno quindi sullo stesso volo, per di più vicini di posto e con Paul (Lucas Bravo), fidanzato di Georgia, comandante dell’aereo, non risparmiandosi, ovviamente, il rimpallo di salaci frecciatine connotate da un acre sarcasmo, per poi, una volta raggiunta Bali…
Diretto da Ol Parker, anche autore della sceneggiatura insieme a Daniel Pipski, Ticket To Paradise credo possa definirsi una sorta di ibrido connubio tra gli stilemi propri delle commedie romantiche made in USA in voga negli anni ’80-’90, congegnate per lo più coralmente a livello narrativo (mi sovvengono in mente in particolare le orchestrazioni ideate da Nora Ephron e, soprattutto, Nancy Meyers) e quelli caratterizzanti invece le screwball comedy degli anni ’30-’40, sempre americane, all’interno delle quali andava a delinearsi un caratteristico triangolo tra due ex coniugi ormai separati da tempo e, generalmente, il nuovo compagno o la nuova compagna (per esempio The Awful Truth, Leo McCarey, 1937, con Cary Grant e Irene Dunne, o His Girl Friday, Howard Hawks, 1940, ancora Grant, affiancato da Rosalind Russell). Però, almeno a mio avviso, risultano in definitiva prevalenti i tratti salienti delle prime, mentre riguardo le realizzazioni d’antan il richiamo risulta discontinuo, solo a tratti adeguatamente sapido, come nella sequenza iniziale, dove il montaggio alternato a far le veci dello split screen (visivamente richiamato anche dalle rispettive camere contigue nell’albergo di Bali), evidenzia ciò che David e Georgia pensano rispettivamente l’uno dell’altra e quanto siano diversi i ricordi e le sensazioni attinenti al loro primo incontro e ciò che comportò il naufragio del matrimonio. Inoltre una scrittura spesso piatta e prevedibile, cui si accompagna una regia alquanto anodina, rendono difficile superare l’asticella della classica “valida gradevolezza complessiva”, anche se a salvare il tutto in “zona Cesarini” intervengono le ottime interpretazioni attoriali profuse dalla coppia Clooney-Roberts.
Evidente, infatti, la loro alchimia, non solo recitativa, con una naturalezza permeata da toni divertiti, ancora prima che divertenti. A parer mio, inoltre, siamo di fronte a due interpreti nei cui riguardi è ancora possibile rivolgere l’appellativo di “divi”, nel senso più classico e puro del termine, ovvero avvolti da un innegabile stile che li rende certo fascinosi e suadenti, ma non certo irti su di un piedistallo, bensì inclini a dispensare un afflato ancora sanamente popolare, lasciando inoltre che gli inevitabili segni del tempo, almeno così mi è parso, non vengano rimpiazzati dai consueti ritocchini estetici: lui sempre ammiccante, sornione e “piacione”, nella capacità, degna del miglior Grant, di esprimere con nonchalance caustica ironia ed amara disillusione (il dialogo notturno con l’amica di Lily, sostenuto da qualche bicchierino di conforto), lei, bellissima, perfetto amalgama di ostentata durezza e velata dolcezza, madre premurosa e un passato di moglie cui varie incomprensioni o tacite verità hanno impedito che trovassero buon albergo quelle attenzioni proprie di un rapporto paritario. Ticket To Paradise, fotografato da Ole Bratt Birkeland in formato panoramico, andando a delineare una resa visiva propria di un depliant pubblicitario fornito da una qualsivoglia agenzia viaggi (le riprese si sono svolte inizialmente in Australia e poi, diminuita l’emergenza sanitaria causa Covid, a Bali), perde smalto e coinvolgimento emotivo quando le attenzioni registiche si spostano dal “magico duo” verso gli altri interpreti:in particolare la giovane coppia avrebbe meritato una maggiore caratterizzazione, soprattutto il personaggio di Lily, al pari di quello della sua migliore amica. Vacua, oltreché inutile, l’ostentata insistenza riservata al colore locale, contornata da battute insulse e vetuste, insieme a riprese fin troppo da cartolina, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo.
Comunque questo cocktail di vari stilemi, né agitato, né mescolato, volto a porre in essere il tentativo di riportare a galla la commedia romantica americana guardando tanto ad un passato cinematografico relativamente recente quanto a quello più distante nel tempo, centra il bersaglio essenzialmente per i descritti meriti di George e Julia, riuscendo comunque a smuovere le sedimentate acque di una offerta hollywoodiana spesso standardizzata ed assicurando più di una risata (una su tutte la sequenza, certo non inedita, della gara di bevute fra i matusa e i giovani, con i primi pronti a scatenarsi sulle note di una canzone della loro gioventù), coinvolgendo quanto basta per non rimpiangere troppo il prezzo del biglietto ed assicurando comunque due ore di sana spensieratezza nel condurci all’interno di un’atmosfera astrattamente paradisiaca, “il mondo l’abbiam chiuso fuori con il suo casino”, per dirla con Celentano (Soli, Miki Del Prete, Cristiano Minellono, Toto Cutugno, 1979) .