Film che mi hanno fatto tornare il buonumore (e non è poco…): Beata te / Il gatto con gli stivali 2- L’ultimo desiderio

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Mi sono accostato alla visione di Beata te, distribuzione Sky Cinema sulla piattaforma omonima (ed anche su Now TV), e del film d’animazione targato DreamWorks, Il gatto con gli stivali 2- L’ultimo desiderio, spinto dalla consueta curiosità (finché dura…) ma anche pervaso dall’euforia propria del rappresentante di una ditta di frigoriferi intento ad illustrare il campionario ad un esquimese, con tutta una serie di borbottii esternata al fido cagnolone Boghy (rispettivamente “sarà la solita commedia italiana pronto cuoci” e “figurati, un trito e ritrito sequel ad opera di una Hollywood ormai intenta, salvo felici deviazioni, a spremere fino in fondo l’altra metà del limone…”). Alla fine, però, in ambedue i casi, l’entusiasmo ha soppiantato dubbi e prevenzioni, fino al raggiungimento di un certo buonumore, per le ragioni che andrò ad illustrare. Beata te, diretto da Paola Randi su sceneggiatura di Carlotta Corradi e Lisa Nur Sultan, adattamento dell’opera teatrale Farsi fuori di Luisa Merloni (2017), è una realizzazione che avrebbe certo meritato una distribuzione cinematografica, considerandone la capacità di smarcarsi dalle consuete realizzazioni “serializzate” espresse dal “commedificio italico”, spesso lontane, fatte salve poche eccezioni, dall’originalità e, soprattutto, dal riuscire a congiungere compiutamente risate e riflessione. Merito, in primo luogo, di una sagace scrittura, tra battute fulminanti e dialoghi vivaci, mai banali, senza dimenticare il fine lavoro di regia inteso a soppesare l’incedere dei vari accadimenti e ad offrire risalto alle interpretazioni attoriali (di concerto con l’accuratezza espressa riguardo costumi, Isabella Rizza, scenografia, Elisabetta Zanini, e fotografia, Valerio Azzali).

Serena Rossi (Movieplayer)

La narrazione prende il via in quel di Roma, all’interno di un locale dove Marta Paladino (Serena Rossi), regista teatrale prossima al debutto con l’Amleto shakespeariano, sta festeggiando in compagnia di amici e parenti il suo quarantesimo genetliaco. All’improvviso le si presenta innanzi, salutandola quale “piena di grazia” e qualificandosi come l’Arcangelo Gabriele, un giovale ometto, rotondo e baffuto (Fabio Balsamo), dall’accento sudamericano, annunciandole una prossima gravidanza, ricevendo come risposta un deciso invito a…desistere. Ma il messaggero celeste non demorde, la segue fino a casa, dove, con grande sgomento di Marta, farà apparire le classiche ali e le spiegherà il perché sarà presto in dolce attesa: trattasi di un dono elargitole in quanto, dopo anni di mancate frequentazioni maschili, è come se fosse tornata illibata. Non si tratta comunque di mettere al mondo il Figlio di Dio (quello, spiega Gabriele, sempre con inflessione argentina per adeguarsi all’idioma dell’attuale Papa, era limited edition…), anche se Marta, che non ha neanche ricevuto la Prima Comunione (“Mia madre ha fatto il ’68…”), gli para contro il mutamento dei tempi, prontamente rimarcato via wikiHow: dal 2017 la donna deve esprimere il proprio consenso e può chiedere del tempo per pensarci, ricordando comunque, poiché in Italia la fecondazione eterologa è permessa solo alle coppie etero, che il messo divino resta l’unica opzione legale per una italiana single o una coppia gay.

Fabio Balsamo (Movieplayer)

E così, accettato il diritto di ripensamento da esercitarsi nel termine di 14 giorni, Gabriele si stabilirà a casa della donna, in modo da sostenerla nel valutare i pro e i contro dell’eventuale lieto evento, presentato alla madre (Paola Tiziana Cruciani) come “un amico dell’Erasmus”, mentre per gli attori della compagnia sarà “un cugino dall’Argentina”… “È più felice una donna felice”, in questa risposta esternata dalla ginecologa alla quale Marta aveva posto la fatidica domanda “È più felice una donna con i figli o senza figli?”, si può rinvenire, almeno a parere di chi scrive, l’essenza propria di Beata te, ovvero la sacrosanta rivendicazione da parte delle donne, in nome di una definitiva autodeterminazione, al di là di vetusti parametri imposti dal vivere sociale e ben oltre i “favori” elargiti tramite apposite leggi, di poter scegliere il percorso esistenziale che più loro aggrada, sentendosi appagate in qualsiasi condizione che sia frutto di una autonoma scelta. Dall’essere single in nome di una libertà che consenta di esprimere la propria più intima essenza, tanto in un ambito lavorativo che nei rapporti coi familiari, se ancora presenti, o comunque con quanti gravitano intorno al rituale incedere esistenziale, fino al rinvenire il “compagno di viaggio” forse definitivo, affidandosi anche a ciò che il fato andrà a presentare, una volta presa consapevolezza del senso da conferire alla vita nel suo insieme, per il tramite delle proprie azioni e dei propri comportamenti. Un assunto che nel corso dell’iter narrativo si sviluppa in crescendo, con impagabile naturalezza e sensibilità, rimarcato in particolare dalle ottime interpretazioni di Serena Rossi, al culmine espressivo di dolcezza e risolutezza, fra disincanto e consapevole abbraccio dell’inaspettato, e di Fabio Balsamo, il divino a livello terrestre, caustico e sferzante (“basta con i remake, 400 anni e non sapete scrivere una cosa nuova…”, è il suo commento all’ennesima rappresentazione dell’opera del Bardo), il cui intercalare, splendida intuizione, è scosso dal fremito dei versi di Tiziano Ferro.

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Da evidenziare poi, oltre a gustose sequenze che vedono schierarsi, “l’un contro l’altro armate”, gioie e ambasce dell’essere coniugati, con prole o senza, e dell’essere invece anime solitarie ma non propriamente sole, l’apporto di validi caratteristi quali Paola Tiziana Cruciani e Lorenzo Renzi. Una commedia capace di scherzare col sacro con gusto e sana irriverenza, coniugando senso del fantastico e concretezza del reale per il tramite di una levità che non sa mai d’inconsistenza, anzi va piuttosto a costituire un valido compromesso fra sorriso e riflessione, fino a raggiungere, ora agitando, ora mescolando, l’ideale punto d’incontro tra ironia e disamina sociale. Ed ora andiamo a scrivere de Il gatto con gli stivali 2- L’ultimo desiderio, che segue allo spin off  del 2011 (regia di Chris Miller), nonché  prequel  di quello Shrek con il quale nel 2001 la DreamWorks riuscì ad emancipare e rendere “adulto” il mondo dei cartoon e delle fiabe contemporaneamente, a colpi di smitizzazione, perfida ironia ed un linguaggio dai continui rimandi cinefili. Il Gatto con gli Stivali elevava a ruolo di protagonista il micio spadaccino, entrato in qualità di comprimario nel secondo episodio della saga e che, almeno per quanto mi riguarda, ne ha reso più digeribili il terzo e quarto episodio, anche nella versione obesa apparsa in Shrek e vissero felici e contenti (“Sfamami, se osi!”). Il Gatto, infatti, lontano parente di quello apparso nella fiaba di Straparola prima e di Perrault poi, passando per altri autori, mi aveva letteralmente ammaliato nel suo essere così fascinosamente doppio: da un lato ineffabile schermidore e cavaliere solitario dal savoir faire antico, corteggiatore di leggiadre micine, compendio di tanti eroi leggendari, Zorro in primo luogo (la “P” di puss, micio, come firma, con tre rapidi guizzi di spada, in luogo della “Z”), oltre che alter ego di Antonio Banderas (suo doppiatore anche nella versione italiana, a partire da Shrek terzo, ora sostituito da Diego Suarez) nei modi ineffabilmente latini, dall’altro preda improvvisa della natura felina, che si manifestava in tutte le sue caratteristiche, dal rigurgito delle palle di pelo, agli occhioni spalancati alla bisogna, dando luogo ad un primo piano probabilmente tra i più belli e memorabili della storia del cinema, non solo d’animazione.

Kitty Zampe di Velluto, Perrito e Gatto con gli Stivali (Movieplayer)

La visione di questo secondo capitolo, diretto da Joel Crawford (con la collaborazione di Januel Mercado) e sceneggiato da Paul Fisher e Tommy Swerdlow, mi ha piacevolmente sorpreso, riprendendo quanto scritto ad inizio articolo, per quanto, almeno al momento, il film d’animazione che mi ha suscitato maggiore godimento, in particolare per la concreta resa autoriale, è stato Guillermo del Toro’s Pinocchio. A quest’ultimo il cartoon della DreamWorks è curiosamente affine, limitatamente comunque ad alcune tematiche trattate, decisamente “adulte”, quali il senso che verrà conferito all’esistenza terrena, facendo sì che della propria vita non vada sprecato neanche l’attimo in apparenza più insignificante, anche considerando un sempre possibile arrivo, quando meno te lo aspetti, del tristo mietitore, qui rappresentato da un enorme lupo bipede (con le zampe anteriori impugna due affilate falci), dallo sguardo di brace, la cui presenza è avvertibile nel risuonare di un inquietante fischio a scandire l’inesorabile incedere temporale (omaggio all’Alessandroni dei western leoniani; Heitor Pereira è l’autore della colonna sonora). Il leggendario Gatto infatti, dopo un’allegra fiesta nel paesello di Del Mar, dove ha dato ulteriore adito all’indole fiera e ribalda che gli è propria, approfittando dell’assenza del governatore dalla sua dimora, ed essersi poi battuto con guascona irruenza contro un risvegliato gigante, duello dal quale usciva vincitore per essere infine sopraffatto da…una campana, viene messo in guardia dal veterinario che lo ha preso in cura di come si sia ormai giocato, nei modi più futili, 8 delle 9 vite a disposizione. Dopo uno scontro col citato Lupo, dal nostro ritenuto nient’altro che il solito cacciatore di taglie, duello in cui verrà privato della sua fida lama, Gatto seguirà a malincuore il consiglio del cerusico, ovvero adattarsi a divenire un micio da grembo. Si recherà quindi, mesto e meditabondo, alla pensione di Mama Luna, non prima di aver seppellito cappa, cappello piumato e stivali, divenendo un normale micetto, fra miagolii, bagnetto, pappa collettiva e il rituale della lettiera dove, commenta amareggiato, “la dignità va a morire”, per non parlare del nome affibbiatogli, Pickle, “cetriolino”…

Riccioli d’Oro e i Tre Orsi(Movieplayer)

La vita scorre quindi felinamente eguale giorno per giorno, la barba si allunga, l’aria si fa stanca e l’incedere pigro, appena confortato da qualche chiacchiera con un vispo chihuahua che si è travestito da gatto per rinvenire un minimo di affetto ed attenzione, fino a quando sulle tracce dell’ormai ex leggenda non si metterà Riccioli d’Oro insieme ai Tre Orsi, bisognosa del suo aiuto per rinvenire la mappa che conduce alla Foresta Oscura, dove si trova la Stella del Desiderio. La cartina è ora in possesso del bieco Big Jack Horner ed interessa anche a Kitty Zampe di Velluto, nemesi amorosa di Gatto, abbandonata sull’altare anni addietro… Ricordando come del precedente capitolo avessi lodato la pregevolezza della realizzazione grafica e tecnica, avvertendo però la mancanza, in particolare nella qualità di adulto non accompagnato da minore, del sentore proprio della bella fiaba, ritengo invece che questo seguito riesca a colmare il suddetto vuoto, grazie anche al ricorso ad un disegno bidimensionale, ricco di vivaci colori, alla pari delle pagine proprie di un buon vecchio libro illustrato, incentrato su racconti fiabeschi (in particolare la sequenza che vede Gatto arrendersi alla realtà della casa di riposo), riservando invece il tridimensionale alle pirotecniche e fin troppo ipercinetiche sequenze d’azione. Riuscita la caratterizzazione dei personaggi, a partire dallo sfrontato protagonista, anche se non ho particolarmente gradito, per quanto nel complesso possa risultare divertente considerandone l’ effetto certo straniante, il ricorso nel doppiaggio italiano ad un macchiettistico miscuglio di più inflessioni dialettali riguardo la parlata di Riccioli d’Oro e dei Tre Orsi, in sostituzione dell’originale idioma cockney proprio della classe proletaria londinese (corsi e ricorsi storici, è quanto avvenne per il doppiaggio di Audrey Hepburn in My Fair Lady, 1964, George Cukor).

“Sfidami, se osi!” (Ciak Magazine)

Risolutivo ai fini dello sviluppo intimistico della trama l’ingresso del cagnolino che Gatto e Kitty chiameranno Perrito, il quale nella sua disarmante ingenuità e purezza d’animo (toccante il racconto del suo crudele abbandono, comprensivo di un tentato omicidio) funge quale cartina di tornasole sia riguardo l’incalzare degli accadimenti, sia relativamente al mutare emozionale dei due felini, ma anche di Riccioli e dei suoi “genitori” plantigradi, i quali comprenderanno nel corso dell’avventura come la mera realizzazione di un desiderio individuale non potrà mai essere appagante quanto la sua condivisione con quanti ci sono vicini. La potenzialità di rendere una vita effettivamente compiuta è rinvenibile nell’accettarla nella sua totalità e conferendovi un concreto significato col proprio operato giornaliero (infatti la mappa che conduce alla Foresta Oscura indica un percorso diverso per ogni individuo, più o meno difficoltoso), mentre per quanti aspirano a nient’altro che all’affermazione smodata del proprio ego quale predominio su tutto e tutti, vedi il tronfio Big Jack Horner, non vi potrà essere alcuna soddisfazione esistenziale propriamente detta, che vada al di là della mera possessività. Un film d’animazione, andando a concludere, divertente e godibile per grandi e piccini, che rilancia lo spirito “gaudente” proprio della DreamWorks, un girotondo di trovate spettacolari e continue citazioni, filmiche e non, dalla quale però ora attendiamo l’apertura verso qualcosa di veramente inedito, elargendo sempre più concretezza al melange fra malia immaginifica e mirabilia tecnica, resistendo alla tentazione di un ulteriore seguito in odore di serialità, che purtroppo il finale, felice di sbagliarmi, lascia presagire.


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