Manhattan, New York County, 1955. Da circa 500 anni nell’isola, una volta sopraggiunta l’Estate, dal mese di luglio, si ripete un identico rito, che era proprio dei nativi americani: quando l’aria diveniva sempre più calda ed il tasso di umidità si rendeva insopportabile, i mariti mandavano mogli e figli in montagna dove il clima era molto più benevolo riguardo la disponibilità di frescura, mentre loro si dedicavano alla caccia, da intendersi non necessariamente come procacciamento del cibo. E quanto succede a Richard Sherman (Tom Ewell), che, come tanti uomini sposati costretti a restare in città a lavorare, ha appena accompagnato in stazione la moglie Helen (Evelyn Keyes), con la quale è sposato da sette anni, ed il figlio Ricky, in partenza verso il Maine. Coltivando il buon proposito di seguire le raccomandazioni esternate dalla consorte nel rammentargli i consigli del medico (niente alcolici e sigarette), il nostro osserva con disgusto il subitaneo darsi da fare dei vari “scapoli causa ferie”, appena le “dolci metà” hanno messo piede sul treno. Lui invece, che lavora in una piccola casa editrice specializzata nella ristampa di testi classici, attualizzandone titolo e copertina assecondando pressanti prurigini proprie del “vivere moderno” (Piccole donne diviene I segreti del dormitorio delle vergini), non chiede altro che, dopo un pranzo al ristorante vegetariano, rientrare nel proprio comodo appartamento, dotato di aria condizionata, seguire una partita alla radio sorseggiando una bibita al lampone spaparanzato sulla chaise longue in terrazzo e dedicarsi alla consueta modernizzazione di un testo scritto da un emerito psichiatra, Dr. Brubaker (Oscar Homolka), il quale descrive in un capitolo quella crisi della coppia definita come il “prurito del settimo anno”.
Proprio tale pizzicorino si farà vivo quando Richard, causa la caduta accidentale di una pianta di pomodori dal piano superiore, farà la conoscenza di un’avvenente fanciulla (Marilyn Monroe), modella ed interprete di spot pubblicitari: la fervida immaginazione del nostro, che lo rende protagonista, improbabile seduttore dal “fluido animale”, in varie situazioni piccanti insieme alla segretaria o qualche amica di Helen ed ora alla formosa bionda, andrà presto a confondersi con la realtà, finché … Tratto dall’omonima piece teatrale opera di George Axelrod andata in scena nel 1952 al Fulton Theatre di New York con protagonisti Ewell nei panni del “buon borghese americano” e Vanessa Brown in quelli della “ragazza”, The Seven Year Itch vede cooperare allo script il citato Axelrod ed il regista del film, Billy Wilder, alleati nel cercare di fronteggiare l’allora vigente Codice Hays, le linee guida improntate al rispetto di una convenzionale moralità adottate nel 1930 dal Motion Picture Producers and Distributors of America, per essere poi applicate quattro anni più tardi. Venne subito messo in chiaro come fosse assolutamente da evitare, esemplare al riguardo quanto fa notare Edoardo Erba nella prefazione alla pubblicazione della sceneggiatura dell’opera originaria (Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2012), la trasposizione del perpetrato tradimento, nella pellicola solo vagheggiato dalla fantasia di Sherman o quella relativa a battute più che allusive.
Ovvio allora che la versione cinematografica risulti per certi versi annacquata rispetto all’opera teatrale d’origine e lo stesso Wilder ebbe a dolersene, però è indubbio che il cineasta d’origine austriaca sia riuscito comunque a mettere in scena una classica sophisticated comedy, contornata da un’elegante scenografia (George W. Davis, Lyle Wheeler) e da una “pastosa”, scintillante, fotografia (Milton R. Krasner), che non rifugge dalla satira, sapida e caustica, rivolta alla morale comune americana. Risulta ben evidente infatti lo sberleffo a certo perbenismo di facciata proprio della classe media statunitense, che si cela dietro le parvenze delle buone maniere e comincia a rincorrere determinate tendenze (il salutismo, la psicanalisi quale panacea di ogni problematica, ma anche la ricerca di determinati agi sociali da soddisfare per il tramite di un consumismo suggerito fino a divenire convenzionale), così come rappresentata dal pavido Sherman, impersonato con rara adesione e spontaneità da Ewell nel mettere su un vero e proprio muro di pulsioni represse, destinato a sciogliersi quale neve al sole una volta che farà la sua apparizione la splendida Marilyn nei panni della “ragazza”. Il candore ingenuo di quest’ultima, la sua particolare apertura alla vita, lo sguardo sempre perennemente stupito, al pari di quello proprio di un bimbo che osserva il mondo per la prima volta, senza dimenticare la prorompente sensualità, faranno sì che al finora tranquillo impiegato si parino innanzi ogni frustrazione o desiderio mai realizzato.
L’impatto teatrale proprio del susseguirsi dei vari sketch, appare mitigato da tale magnifica presenza, grazie alla quale il pur sottile filo che unisce realtà ed immaginazione, insieme ai rispettivi flussi in odore di reciprocità, appare sempre ben teso. Esemplificativo al riguardo il dialogo tra Sherman e l’amico di famiglia, immaginario rivale in amore, MacKenzie (Sonny Tufts): “Posso spiegare tutto, la scala, quella bionda in cucina…”; “Un momento, parliamo con calma, quale bionda in cucina?”“Ti piacerebbe vederla, eh? Forse è Marilyn Monroe”. Molti poi i richiami cinefili (i più evidenti: From Here To Eternity, Fred Zinnemann, 1953; Creature From the Black Lagoon, 1954, Jack Arnold, film che Sherman e la ragazza vanno a vedere insieme e che rivela la dolce ingenuità di quest’ultima, triste per la sorte del mostro), all’interno di un linguaggio meta cinematografico, con vari riferimenti ai generi e alle loro convenzioni. Fra le varie sequenze gustose, ad avviso di chi scrive appare rilevante, ancor prima di quella celebre relativa allo svolazzare della gonna in seguito allo sbuffo d’aria dovuto al passaggio della metropolitana, l’entrata in scena della procace protagonista, enfatizzata dal profilo visibile dal vetro opacizzato della porta d’ingresso nello stabile e poi subito dopo smitizzata dalla sua apparizione con in mano i sacchetti della spesa ed un ventilatore, come fa notare Roberto Campari nel Capitolo V (L’analisi iconologica del film), pag.168, del testo Metodologie di analisi del film (a cura di Paolo Bertetto, Biblioteca Universale Laterza, 2006). Marilyn asseconda una sana autoironia, idonea a travalicare la profonda insicurezza di fondo, enfatizzata da realistici dubbi e titubanze. L’apparente, eterea, vaghezza prende le forme man mano di un pressante e prorompente disincanto, cui si unisce un candido erotismo denso di richiami e contraddizioni.
Un particolare gioco di specchi, fra la quotidianità disarmante di Norma Jeane Mortenson (nome alla nascita della Monroe, poi battezzata come N.J. Baker), la ragazza della porta accanto, e la grande diva colta nella sua essenzialità, con la nota costante della fragilità imposta dall’incessante trasformismo che il suddetto binomio comporta. Ed è probabilmente questo sotteso e sottile equilibrio fra quotidianità ed onirico, oltre ai suddetti strali lanciati contro le ipocrisie e le incongruenze proprie della società americana a rendere The Seven Year Itch un’opera sempre godibile e divertente, non scevra da vari punti di riflessione, anche se non così pungente e sferzante, ma vi è pur sempre il tocco sardonico di Wilder, quanto lo scritto originario del mai troppo celebrato Axelrod. Da ricordare in chiusura il valido commento sonoro di Alfred Newman, che a mo’ di contrappunto sottolinea determinate sequenze, con l’impiego funzionale del valzer per pianoforte Chopsticks (Le tagliatelle nella versione italiana), scritto nel 1877 dalla compositrice inglese Euphemia Allen (usando lo pseudonimo Arthur de Lulli) e, soprattutto, del “diabolico” Concerto No.2 per pianoforte di Sergej Vasil’evič Rachmaninov, capace di scatenare istinti belluini da “assalto al forte”, anche se, per assecondare il codice morale di cui si è scritto ad inizio articolo, il coitus interruptus sarà garantito dal pronto intervento del custode Kruhulik (Gaetano nel nostro idioma, interpretato da Robert Strauss), quando non dalla responsabilità di buon padre di famiglia e marito esemplare del candido Sherman, il quale in fondo aveva bisogno soltanto di un confronto con un’anima pari alla sua, svagata e sognatrice, per sentirsi nuovamente integrato, se non nel consesso sociale, almeno in un alveo esistenziale di concreta umanità.
Pubblicato su Diari di Cineclub N.113, Febbraio 2023
L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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