Lagunaria

Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”: quanto affermato da Marco Polo ne Le città invisibili di Italo Calvino (1972), mi è sovvenuto in mente nel corso della visione del documentario Lagunaria, scritto e diretto da Giovanni Pellegrini, anche autore della fotografia, da ieri, martedì 4 aprile, in sala. Un’opera che, ad avviso di chi scrive, si offre alla visione quale nitido esempio di come il cosiddetto “cinema del reale” possa giungere ad offrire una chiave di lettura della contemporaneità, nel caso specifico le problematiche legate alla città di Venezia, ricorrendo a stilemi rappresentativi non del tutto consueti rispetto al genere, così da suffragare suggestioni visive ed intima emozionalità per il tramite di un particolare intreccio narrativo che va a snodarsi nella ricercata e suadente intersecazione tra voce narrante (Irene Petris), immagini, e l’ipnotico, per certi versi straniante, commento sonoro ideato da Filippo Perocco. Quest’ultimo contribuisce a creare una suggestiva atmosfera, percepibile come sospesa nel tempo e nello spazio, del tutto propria della città protagonista, dove l’acqua, già dall’apertura con la visione dall’alto della laguna, dei suoi meandri, di qualche posto non ancora del tutto contaminato dall’intervento umano o viceversa da questo profondamente segnato, nel bene e nel male, appare quale elemento dominante, solcata dalle barche dei pescatori, dalle gondole con a bordo i turisti a curiosare tra gli scorci caratteristici nei vari canali, ma anche dalle imbarcazioni di quanti cercano d’individuare i danni provocati dai mutamenti climatici e cosa abbia scatenato quest’ultimi.

L’andamento favolistico delineato dal racconto della narratrice si riveste di concreta attualità mano a mano che scorrono le immagini, riprese nell’arco di cinque anni, nel cui scorrere i segni dei mutamenti climatici si sono resi sempre più evidenti, tra il frequente fenomeno dell’acqua alta e l’alluvione del 2019, evidenziando così quanto Venezia possa essere vittima del suo stesso fascino, della sua indomita bellezza, anche considerando l’invadenza del turismo di massa, resa nella sua cruda portata stravolgitrice dall’insorgere dell’emergenza sanitaria conseguente al diffondersi del Coronavirus: venendo a diminuire l’impatto delle attività umane, l’ecosistema si è ripreso, in parte e per poco tempo, i suoi spazi, giungendo a ristabilire il primigenio legame tra uomo e Natura, improntato alla parità, perché quando l’uno tende a prevaricare sull’altra, inevitabilmente andrà a frantumarsi l’armonia creazionale, mentre un auspicabile congiungimento, con reciproca accettazione, non potrà che generare qualcosa di nuovo, il quale a sua volta seguirà il proprio corso esistenziale, magari nell’avallare una ritrovata simbiosi tra Venezia ed i suoi abitanti, altrimenti la prima troverà il modo di scomparire alla vista, in attesa che si rinvenga la soluzione idonea a consentire inedite modalità abitative ed esistenziali, recuperando al riguardo l’idea di collettività nell’avallare quanto possa garantire la propria stessa sussistenza.

Pellegrini per il tramite delle descritte modalità narrative così come dell’elegiaco rincorrersi tra immagine e suono, offre dunque un “abbraccio altro” alla città d’origine, evidenziandone, nel coniugare estrema lucidità e senso del fantastico, tutte le contraddizioni che ne pongono in primo piano la fragilità e l’urgenza di porvi ad essa rimedio, riuscendo poi a veicolare il messaggio dal particolare all’universale, ovvero estensibile a qualsiasi agglomerato urbano che non tenga conto delle caratteristiche precipue del territorio e delle sue necessità andando conseguentemente a contemperarle, all’insegna di un reciproco rispetto, con l’inevitabile insediamento umano. Anche in chiusura credo sia sempre utile citare Calvino e il suo Le città invisibili: L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.


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