Ho lasciato trascorrere più di qualche giorno dalla visione per scrivere le mie considerazioni relative al film Il sol dell’avvenire, diretto da Nanni Moretti, anche autore della sceneggiatura insieme a Francesca Marciano, Federica Pontremoli, Valia Santella, che sarà in concorso all’ormai prossimo 76mo Festival di Cannes, a difendere i nostri colori insieme ad Alice Rohrwacher (La chimera) e Marco Bellocchio (Rapito). Il motivo precipuo a conti fatti credo sia da rinvenirsi in una tanto sconvolgente quanto salutare sensazione di straniamento che mi ha complessivamente avvolto una volta uscito dalla sala, per poi condurmi a riflettere su quello che a mio avviso debba considerarsi quale pilastro portante dell’iter narrativo: la sofferta consapevolezza, manifestata nelle forme di una sorta di visuale flusso di coscienza, esteriorizzato ulteriormente nelle forme di un catalogo ragionato dei propri vezzi e delle proprie idiosincrasie, concernente quanti non riescano più, a meno di non ricorrere ad un provvidenziale ricorso all’immaginazione per sostituirvi un “mondo altro”, a trovare alcun riscontro nell’ambito di una realtà, sociale, culturale, politica, fino a sconfinare nel privato del personale vissuto, che sembra andare in tutt’altra direzione, spesso moralmente discutibile, anche al di là della consueta contrapposizione di opinioni ed idee contrastanti che comunque alimentano, pur se non sempre proficuamente, il dibattito all’interno di una comunità che voglia definirsi civile.
E’ quanto, in buona sostanza, Moretti esternava, sceso dalla sua Vespa, nei pressi di un semaforo, ad un automobilista, interpretato da Giulio Base, in una sequenza di Caro diario, 1993:“Sa cosa stavo pensando? Io stavo pensando una cosa molto triste, cioè che io, anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone. Ma non nel senso di quei film dove c’è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano su un’isola deserta perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza…e quindi…”. Ecco allora che in un mondo dominato dal caos dei valori, quando le vestigia dell’ideologia, pur “consacrate” a livello fideistico, non si rivelino bastevoli per poter vivere decentemente, assume congrua rilevanza l’essere se stessi, consci della propria diversità e di dove questa ti può portare, alla solitudine o ad essere parte consapevole di una minoranza di persone, mantenendo un’integrità di pensiero ed una correttezza morale di fondo, pur con gli inevitabili adattamenti e compromessi che il vivere sociale spesso richiede e facendo i conti con la propria evoluzione nel corso degli anni. Il compromesso escogitato da Moretti è quello di riscrivere la Storia, immaginando che determinati accadimenti abbiano avuto una diversa conclusione, consona ad una personale idealizzazione sociale, perché, come ha dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera, “Il cinema non si fa solo per compiacersi di raccontare una brutta realtà. Il cinema si fa anche per sognare una bella e diversa realtà”. Il tutto ne Il sol dell’avvenire si sostanzia a livello narrativo nell’intersecarsi di più storie, che vedono il regista Giovanni (Moretti), sposato con Paola (Margherita Buy), produttrice dei suoi film, tranne quello che il coniuge sta girando al momento, segnale, non colto, di una profonda crisi nel rapporto.
I due hanno una figlia, Emma (Valentina Romani), musicista, che intrattiene una relazione con un uomo di mezz’età. La storia su cui sta lavorando Giovanni, tra un ripensamento e l’altro, considerando come la mente voli verso la desiderata realizzazione di una pellicola che abbia al suo interno tante canzoni italiane, con un pensiero rivolto anche ad un adattamento de Il nuotatore di Cheever, vede, sullo sfondo del romano Quarticciolo, “nell’Italia conformista degli anni ’50”, il segretario del locale circolo del PCI, nonché redattore dell’Unità (Silvio Orlando) e sua moglie (Barbora Bobulova), prendere posizioni diverse riguardo l’intervento sovietico per reprimere la rivoluzione ungherese, l’uno appoggiando le decisioni del partito, l’altra sostenendo la causa dell’insurrezione. Il finale dovrebbe prevedere il suicidio del segretario, sconvolto dal dissidio tra fede politica ed amore coniugale, ma Giovanni ha in mente altro, qualcosa che soddisfi le sue esigenze di uomo e di artista impegnato, dopo aver visto passare la produzione in mano ai coreani in seguito ai debiti del produttore francese Pierre (Mathieu Amalric) e al rifiuto di Netflix, prendendo poi atto, stupito e sconfortato, del malcontento di Paola… Moretti ne Il sol dell’avvenire rende in maniera ancora più netta che in passato, se possibile, la presa di distanza da un certo modo di vivere ma soprattutto da un certo modo di fare cinema, omologante e omologato, dove facilmente la violenza diviene asservita ad una facile spettacolarizzazione e mai funzionalmente, e moralmente, collegata alla narrazione (esemplare la sequenza in cui Giovanni interrompe la scena finale del film prodotto dalla moglie, che dovrebbe concludersi con un’uccisione, per teorizzare su quanto delineato da Krzysztof Kieślowski in Breve film sull’uccidere, 1988), mantenendo quelle caratteristiche di “diversità” proprie della sua produzione sin dagli esordi, esternate anche nei settori produttivi e distributivi, nella consueta dicotomia tra assenza ufficiale ed impegno concreto (“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”, Ecce bombo, ’78), che poi, a parere di chi scrive, è l’essenza più affascinante del nostro “splendido quasi settantenne”, senza dimenticare lucidità e lungimiranza.
Nel bellissimo finale, sempre a mio avviso, la scintillante parata ai Fori Imperiali che mescola finzione e realtà in un afflato dal retrogusto felliniano, dove fra l’altro compaiono i protagonisti di molti film del nostro, Moretti alla placida accettazione dell’integrazione uniformante senza colpo ferire preferisce contrapporre, riprendendo quanto scritto nel corso dell’articolo, una ritrovata conciliazione con il proprio modo di essere, circoscrivendo la realtà all’interno di un intimo falso storico all’insegna “dei se e dei ma” chiudendo un ciclo della propria carriera e probabilmente aprendone un altro, forse meno arrabbiato e rancoroso, ma pur sempre incline a fare la differenza, “in direzione ostinata e contraria”.