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Succede, a volte, amiche lettrici e amici lettori, che la vita chiami, come si suole dire, per cui, alle prese con pressanti problematiche, si tende a mettere in secondo piano quanto poco prima trovava posto tra le priorità, almeno nell’ambito della propria attività, ovvero scrivere di un film più o meno a ridosso della sua uscita, sfruttando quanto offre al riguardo la distribuzione nei cinema nella mia zona di residenza. E così, pur essendo trascorso un po’ di tempo dalla loro visione, eccomi pronto a buttar giù le impressioni su tre film visti qualche settimana addietro, meritevoli a mio avviso di attenzione, considerandone determinate qualità che andrò ad illustrare. Flow. Un mondo da salvare, premiato ai 97esimi Academy Awards come Miglior Film d’Animazione dopo essere stato presentato nella sezione Un Certain Regard  del 77mo Festival di Cannes, è certo un’opera dalla pregevole resa visiva e contenutistica.

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Il regista Gints Zilbalodis, anche autore della sceneggiatura insieme a Matīss Kaža, fa leva sulla forza pura e nitida delle immagini, generate sì per il tramite della CGI, ma permeate da una suggestiva fluidità dalla consistenza naturalistica, incline a riportare all’essenzialità propria del cinema delle origini, anche, se non soprattutto, nella considerazione di come non vi siano dialoghi, bensì una colonna sonora (opera di Zilbalodis, insieme a Rihards Zalupe) intesa a coniugare sonorità elettroniche con quelle rese invece dalla natura. Flow riesce poi nell’intento di porre in scena la suggestione propria della “bella favola” senza ricorrere a particolari ammiccamenti quali, uno su tutti, l’antropomorfizzazione. Ecco allora che il gatto protagonista si esprime col miagolio che gli è proprio, così come esternano la propria voce gli altri animali che gli si affiancheranno quali inaspettati compagni di viaggio, un capibara, un lemure, un golden retriever, un  uccello serpentario, un branco di cani.

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La narrazione lascia molto all’interpretazione degli spettatori, cui offre una benvenuta esperienza partecipativa: l’ambientazione ha come sfondo una foresta dove non vi è traccia di essere umano, a parte una baita abbandonata, circondata da statue tutte raffiguranti gatti, dove il felino protagonista trova rifugio, almeno fino a quando non sopraggiungerà implacabile l’avanzata delle acque a sommergere ogni cosa. Si ipotizza un domani distopico, con l’inquietante presenza del biblico Leviatano a simboleggiare probabilmente l’arrivo dell’Apocalisse e il citato serpentario a costituire infine una sorta di mistica congiunzione tra Terra e Cielo, nella circolarità del racconto che vede la sequenza iniziale congiungersi specularmente con quella finale, come credo già notato da molti. Se in apertura il micio specchiandosi nell’acqua vede solo la propria figura, in chiusura l’effige sarà arricchita da quella dei citati compagni di viaggio.

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Insieme hanno superato ogni ostacolo, facendo leva sulla loro diversità e rispettando quella altrui. Ognuno ha apportato una parte di sé, rendendo il salvataggio da individuale collettivo, travalicando il puro istinto di sopravvivenza in nome di un concreto senso di solidarietà. Che lo stesso possa dirsi, citando e parafrasando Dickens in chiusura, di noi, di tutti noi… Ed ora vado a scrivere di un film, La città proibita, diretto da un giovane autore, Gabriele Mainetti, che, a partire dal suo esordio nei lungometraggi, Lo chiamavano Jeeg Robot, 2015, ha lanciato un segnale obiettivamente concreto riguardo un sempre auspicato rinnovamento del nostro cinema, nell’intento di riprendere contatto, idealmente ma non solo, con un passato, neanche tanto lontano, dove il ricorso al genere, tra intuizioni spesso felici e facendo leva su di un combinato disposto tra creatività e artigianalità, consentiva un’offerta certo diversificata.

Yaxi Liu (Movieplayer)

In particolare Mainetti, come confermato dal successivo Freaks Out, 2018, in nome del “cinema per il cinema”, ha saputo reinterpretare i differenti generi cinematografici, almeno a mio avviso, in particolare anche ponendo l’accento su di una suggestiva mescolanza tra intrattenimento e riflessione. Ora in questa nuova realizzazione, coadiuvato nella sceneggiatura da Stefano Bises e David Serino, il regista continua piacevolmente a stupire, nella sua tarantiniana abilità intesa ad elaborare il genere in nome di una gaudente ed esibita diversità pop che va ad ammantare quanto portato in scena. Il tutto diretto con maestria consapevole, mantenendosi comunque distante dal puro e semplice compiacimento autoriale. La narrazione prende il via con un prologo ambientato nella Cina del 1995, quando era in vigore la politica del figlio unico.

Yaxi Liu ed Enrico Borello (Movieplayer)

Ma l’amore, a volte, è più forte della legge, per cui i genitori di Yun, dopo la venuta al mondo della secondogenita Mei, decidevano di nasconderne la nascita, così da evitare denunce. Entrambe le bambine venivano istruite dal padre alle arte marziali. Passano gli anni ed arriviamo quindi ai giorni nostri, quando un’adulta Mei (Yaxi Liu), giunta nel Rione Esquilino di Roma sulle tracce di Yun, data per scomparsa, avrà modo di dimostrare la sua abilità nelle tecniche del combattimento, scontrandosi con gli sgherri del faccendiere Mr. Wang (Chunyu Shanshan), proprietario del ristorante, nonché bordello, La città proibita, il cui sotterraneo nasconde loschi traffici. Apprende poi come la sorella avesse una relazione con tale Alfredo (Luca Zingaretti),  proprietario di una trattoria di poco distante, dove lavorano il figlio Marcello (Enrico Borello) e la moglie Lorena (Sabrina Ferilli), anche lui scomparso da giorni.

Neanche il suo miglior amico e socio, Annibale (Marco Giallini), boss del quartiere, che risente della concorrenza cinese, sembra non saperne nulla, finché…Contaminazione di generi e contaminazione culturale all’insegna della multietnicità, nell’ambito di una città come Roma, ripresa, come credo sarebbe piaciuto a Pier Paolo Pasolini,  nella sua sfaccettata quotidianità,  vanno di pari passo ne La città proibita. Mi sovviene in mente al riguardo il bel piano sequenza iniziale, ingannatore e foriero di sorprese, visto che dall’interno del ristorante cinese ci conduce all’esterno della romana Piazza Vittorio, contrapponendo così i due mondi quali entità inerenti ad una sorta di microcosmo che vive in forza delle regole imposte dai due boss, Annibale, un superbo Giallini, la cui protervia autoritaria nasconde più di un’insicurezza esistenziale, e Mr. Wang, anche lui alle prese con problematiche di vita che vedono il figlio seguire una carriera di cantante piuttosto che le orme paterne.

Potendo contare sull’atletico apporto di Yaxi Liu, stunt-woman al suo esordio come attrice, Mainetti asseconda con abilità le ottime coreografie dei combattimenti (come quello nel ristorante cinese, dove oltre le mani vengono usati gli oggetti più disparati, una grattugia, ad esempio), avvalendosi di un montaggio abbastanza serrato (Francesco Di Stefano) e di una fotografia (Paolo Carnera) che avalla tenebre e luce in eguale misura. Ottime le interpretazioni attoriali, quali, oltre le già citate, quelle di Borello, ingenuo ragazzone sopraffatto dagli eventi, e della Ferilli, donna il cui sentimentalismo cederà presto il posto ad un crudo disincanto. Se la sceneggiatura accusa qualche cedimento mano a mano che prende piede l’interesse sentimentale tra l’eroina e Marcello, con tanto di giro in scooter lungo le arterie più caratteristiche della Capitale, si rivela invece piuttosto felice il finale, che celebra un punto d’incontro tra romanità e cultura cinese, ancora una volta giocando sull’illusorietà, specularmente alla citata sequenza di apertura. 

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In chiusura articolo, ecco qualche considerazione su U.S. Palmese, presentato in concorso nella sezione Grand Public della 19ma Festa del Cinema di Roma che vede alla regia i Manetti Bros., coadiuvati nella sceneggiatura da Emiliano Rubbi e Luna Gualano. Un film la cui visione mi ha spiazzato, perché i due registi, nel dichiarato omaggio alla città natale della loro madre, Palmi, in provincia di Reggio Calabria, mutano decisamente rotta rispetto a quanto portato in scena finora, andando a lambire i confini della “favola gentile”, vagamente alla Frank Capra. Mantengono comunque saldi alcuni loro stilemi, quali una regia che a tratti riesce a farsi inventiva (in particolare le riprese sul campo da gioco) ed una funzionalità della location e della tematica sportiva ai puri fini narrativi.

 I Manetti sembrano abbracciare affettuosamente, sul filo del ricordo, qualche luogo comune relativo al Sud Italia (le tradizionali feste patronali, il bar o la piazza quale tuttora saldo punto d’incontro, la presenza di un capomafia, trasmutato però in una sorta di “guida alternativa”), per poi smarcarsene nel rendere la cittadina calabra quale “mondo altro” dove la costanza del sogno, rappresentato dall’agricoltore in pensione Don Vincenzo, un intenso Rocco Papaleo, che chiede ad ogni cittadino l’esborso di trecento euro per ingaggiare nella locale squadra di calcio, girone dilettanti, l’asso francese Etienne Morville (Blaise Afonso), sregolato e strafottente in campo come nel quotidiano, può contribuire a fare la differenza, congiunta ad un ben preciso afflato culturale, sospeso tra disincanto e realismo (le figure del professore, Gianfelice Imparato, e della poetessa, Claudia Gerini).

Blaise Afonso e Rocco Papaleo (Movieplayer)

Ecco allora che la monetizzazione in forma affaristica relativa al gioco del calcio lascerà il posto alla pura e semplice passione (enfatizzata dall’allenatore interpretato da un eccelso Max Mazzotta), per cui l’attività sportiva non sarà solo apprendimento della mera tecnica e conseguente attività sul campo, ma anche, se non precipuamente, lo sprone verso un atteggiamento esistenziale idoneo a conformare e caratterizzare tanto l’atleta quanto l’uomo. Non tutto nell’iter narrativo scorre con fluidità, qualche ingolfamento fa capolino (vedi le scelte esistenziali della figlia di Vincenzo, la pur brava Giulia Maenza) e spesso ho avvertito la sensazione di uno scollegamento nell’ambito dei vari accadimenti che si succedono in scena. U.S. Palmese, andando a concludere e riprendendo quanto già scritto, può comunque considerarsi un divertito, ancora prima che divertente, film “d’altri tempi”, che attinge al favolistico e ne restituisce il senso con gli interessi, un cinema degli “affetti speciali”, che nei suoi descritti limiti riesce comunque a suscitare qualche sorriso e congrue riflessioni.  

Immagine di copertina generata tramite AI

3 risposte a “Recensioni in breve: Flow/La città proibita/U.S. Palmese”

  1. […] nell’arco di cinque giorni ha portato a Bologna il meglio dell’animazione internazionale, da Flow al trentesimo anniversario di Toy Story, passando per opere sperimentali  e indipendenti, fino […]

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  2. […] seguire La città proibita (Gabriele Mainetti) con 7, Berlinguer – La grande ambizione (Andrea Segre), FolleMente (Paolo […]

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  3. […] Miglior Film:Il tempo che ci vuole (Francesca Comencini). Migliore Regia: Gabriele Mainetti (La città proibita). Miglior Esordio: Greta Scarano (La vita da grandi). Migliore Commedia: FolleMente (Paolo […]

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