
Da inguaribile vecchio romantico, che ha sempre considerato lo sguardo di una donna quale portante elemento attrattivo, non potevo che restare affascinato da quello reso sullo schermo da un’attrice come Claudia Cardinale (Claude Joséphine Rose Cardinale all’anagrafe), che ci ha lasciato lo scorso 23 settembre. Quegli occhi scuri sprigionavano ad avviso dello scrivente un’espressività istintiva, ferina, incline ad assecondare vari stati d’animo, fino a farsi tutt’uno con lo splendido e disarmante sorriso o con una imbronciata piega malinconica, rendendosi quindi parte integrante di un fascino del tutto naturale e, soprattutto, non catalogabile in alcuna definizione “classica”, contrariamente a quanto avvenne per alcune colleghe della generazione precedente, in particolare andando a considerare il duo Loren-Lollobrigida.
Infatti, come ha fatto notare Paolo Mereghetti sulle pagine del Corriere della Sera, Federico Fellini in 8½ andò a valorizzarla nella sua gioiosa naturalità, a partire dal nome e dalla caratteristica voce roca (per la prima volta l’attrice non venne doppiata), immortalandola quale proiezione salvifica nel rappresentare un ricercato ideale femminile, “giovane e antica, bambina e già donna, autentica e solare…” riprendendo le parole del regista Guido Anselmi, interpretato da Marcello Mastroianni. Nata a La Goletta, cittadina costiera della Tunisia nel 1938, cresciuta nella comunità italiana, la Cardinale nel 1957 venne eletta “la più bella italiana di Tunisi” nell’ambito di un concorso, vincendo così un viaggio a Venezia, per prendere parte alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica ed iniziare così, senza molta convinzione, una carriera nel mondo del cinema.
Esordì nel cortometraggio Chaine d’or (1956) di René Vautier, al quale partecipò con le sue compagne di scuola, mentre due anni dopo prese parte al suo primo lungometraggio, Goha, diretto da Jacques Baratier. Una volta trasferitasi insieme alla famiglia a Roma, frequentò il Centro Sperimentale di Cinematografia, poche lezioni a causa delle difficoltà con la lingua italiana, problematica che la spinse ad abbandonare l’attività cinematografica, ripresa poi grazie al produttore Franco Cristaldi, che ne curò la formazione professionale “sul campo”, puntando ad offrirle piccole parti in pellicole dirette da registi di rilievo.

Eccola allora debuttare nel cinema italiano impersonando la Carmela de I soliti ignoti (Mario Monicelli, 1958), sorella di Michele Ferribotte (Tiberio Murgia), ruolo che riprese ne L’audace colpo dei soliti ignoti (Nanni Loy, 1959) e proseguendo, tra gli altri, con Un maledetto imbroglio (Pietro Germi, 1959), Il bell’Antonio (Mauro Bolognini, 1960), Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti, 1960), I delfini (Francesco Maselli, 1960), La ragazza con la valigia (Valerio Zurlini, 1961), 8½ (Federico Fellini, 1963), Il gattopardo (Visconti, 1963), per una carriera, cinematografica, che è proseguita fino al 2022 con più di cento film all’attivo.
Il ricordo di Claudia Cardinale viene affidato dallo scrivente alle recensioni in breve del citato La ragazza con la valigia e de La ragazza di Bube (Luigi Comencini, 1963), due titoli che, a mio avviso, hanno consentito alla Cardinale di affermare definitivamente la sua grande capacità di “farsi personaggio”, restando sempre e comunque se stessa, riprendendo quanto da lei affermato: “Io non mi sono mai considerata un’attrice. Sono solo una donna con una certa sensibilità: è con quella che ho sempre lavorato. Mi sono accostata ai personaggi con grande umiltà: cercando di viverli dal di dentro, usando me stessa, e senza far ricorso a nessun tipo di tecnica” (Claudia Cardinale e Danièle Georget, Le stelle della mia vita, Edizioni Piemme, 2006).
La ragazza con la valigia, diretto da Valerio Zurlini, anche sceneggiatore insieme a Leonardo Benvenuti, Piero de Bernardi, Enrico Medioli e Giuseppe Patroni Griffi, vede protagonista Aida Zepponi (Claudia Cardinale), ragazza madre con aspirazioni da soubrette. Prima di essere abbindolata e sedotta da Marcello (Corrado Pani), playboy di buona famiglia, cantava infatti in quel di Riccione nel complesso messo su dal fidanzato Piero (Gian Maria Volontè). Marcello, che le ha dato un cognome falso, la molla senza tanti complimenti all’interno di un’autorimessa, una volta che si è allontanata per prendere qualcosa al bar. Aida comunque non demorde, riesce ad individuare l’abitazione del giovane, una sontuosa villa nel parmense.

Marcello però si dà alla macchia e le manda incontro il fratello Lorenzo (Jacques Perrin), studente sedicenne timido e sensibile, che si invaghisce di lei, al punto da arrivare a prestarle del danaro e trovarle una camera in un lussuoso albergo in città… Zurlini dirige con delicatezza e notevole accuratezza formale, avvalendosi spesso di una colonna sonora diegetica (le sequenze della discesa delle scale nella villa e del ballo notturno sulla terrazza dell’albergo, ad esempio), la storia d’ amore tra un ragazzo ancora non “sporcato” dall’incursione in una piena esistenza ed una giovane donna che non rinuncia alla vitalità che le è propria, pur constatando come i classici sogni nel cassetto si dissolvano puntualmente al sopraggiungere del giorno.
Una relazione idealmente possibile, la purezza dell’uno e l’instabilità emotiva dell’altra potrebbero trovare reciproca compensazione, ma che va ad infrangersi sugli scogli della quotidianità di un paese ormai sulla via di un concreto boom economico, dove il danaro fa sempre e comunque la differenza, come dimostra la sfrontata e cinica sicumera esternata da Marcello, ma anche dai sedicenti magnati che circuiscono la donna sotto lo sguardo smarrito, covante risentimento, del giovanotto. Lorenzo, un emotivamente intenso Perrin e Aida, resa con suadente immedesimazione dalla Cardinale (doppiata alla perfezione da Adriana Asti), si renderanno conto tanto della reciproca attrazione quanto dell’impossibilità di darle un concreto seguito dopo un febbrile abbraccio sulla spiaggia di Rimini (sequenza sublime, per costruzione complessiva ed interpretazione).
Un giovane ormai divenuto adulto ed una donna sempre più disillusa si diranno addio all’interno di una stazione: una busta contenente ventimila lire ed una passeggiata pensierosa daranno il triste senso del valore dei sentimenti in una società vacuamente moderna e contraddittoriamente benestante, dove anche le illusioni esigono il loro prezzo.
La ragazza di Bube venne girato da Luigi Comencini nel 1963, adattando piuttosto fedelmente (età dei protagonisti a parte), insieme a Marcello Fondato, l’omonimo romanzo di Carlo Cassola, un testo che al regista piacque molto, tanto da lottare con molti ostacoli perché il soggetto trovasse la via della produzione, anche perché, come il cineasta dichiara nella sua autobiografia Davvero un bel mestiere! Infanzia, vocazione, esperienze di un regista (Baldini & Castoldi, 2016, l’edizione in mio possesso), “(…). Sentivo un’analogia tra l’amore di Bube per Mara e quello mio per mia moglie. Questo legame così personale e nascosto con i miei due personaggi mi sembrava serpeggiare in ogni scena. Illustravo con due attori inconsapevoli la mia storia più intima, una storia che lentamente volgeva al dramma. Molte delle scene d’amore sono state create durante la lavorazione”.

La narrazione ha come sfondo la campagna toscana subito dopo la II Guerra Mondiale. Qui nasce l’amore tra la contadina Mara (Claudia Cardinale) e il partigiano Bube (George Chakiris), che sarà però ostacolato dal coinvolgimento di quest’ultimo in un duplice omicidio e dal conseguente verificarsi di tutta una serie di alterne vicende, che andranno a creare un forzato allontanamento tra i due. Mara, trovato lavoro in città, pur non dimenticando mai l’amato, andrà a confrontarsi con i sentimenti espressi nei suoi riguardi dall’operaio Stefano (Marc Michel). Costruito narrativamente attraverso l’espediente della voce narrante, quella di Mara, a dare vita ad una serie di flashback, La ragazza di Bube può vantare una felice congiunzione tra le scelte scenografiche (Piero Gherardi) e la fotografia in bianco e nero, luminosa, ariosa, di Gianni Di Venanzo.
La sensibilità di Comencini nel tratteggiare i personaggi femminili è qui particolarmente evidente, nella capacità di renderli estremamente vivi e autentici, anche sfruttando stilemi registici diversi da quelli finora utilizzati (basti pensare, una su tutte, alla particolare sequenza che vede Bube allontanarsi in auto, “prelevato” dai compagni, mentre Mara cerca inutilmente di rincorrere il veicolo). Memorabile l’interpretazione di Claudia Cardinale, qui per la seconda volta non doppiata, che offre densa umanità ad un personaggio femminile in graduale evoluzione, al pari del paese reduce dalle miserie belliche, fino a divenire “padrona del proprio destino”, sia da un punto di vista sociale che sentimentale.
Immagine di copertina: Di Gawain78 – catturato personalmente dall’autore, Il bell’ Antonio, Mauro Bolognini, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=2702837






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