Il mio primo film era così brutto che in sette Stati americani aveva sostituito la pena di morte

“Le due parole che uno desidera di più sentirsi dire… Ti amo? Assolutamente no. È benigno” (Deconstructing Harry, W. Allen, 1997)

Auguri di un felice compleanno, in leggero ritardo, al buon vecchio Woody, che ieri, domenica 29 novembre, ha festeggiato 90 primavere. Tra i miei autori cinematografici preferiti, nei cui personaggi rappresentati sul grande schermo mi è stato facile identificarmi, fra vezzi intellettuali, idiosincrasie varie ed ironia salvifica nell’affrontare il quotidiano con la giusta dose di cinismo pratico (“il cinismo non è che realismo scritto diversamente”, scrive il nostro nel suo recente romanzo Che succede a Baum?, La nave di Teseo, 2025). Un’ironia rivolta anche, se non principalmente, nei confronti di se stesso, così da palesarsi, per dirla con Romain Gary, come “una dichiarazione di dignità, un’affermazione della superiorità dell’uomo su ciò che gli capita”. Una panacea idonea ad ovviare a quel senso di inadeguatezza e di solitudine che ti prende quando vedi il mondo, il tuo mondo, cambiare repentinamente, costringendoti ad una scelta: assecondare i suoi mutamenti, accompagnandoli coi tuoi, o a restare sospeso in un’incertezza di fondo.

Sono le “armi” quelle descritte attraverso le quali Allen nelle sue opere si è divertito a descrivere gli ambienti intellettuali della propria città natale, New York, in particolare della comunità ebraica, inserendo come tema costante la passione per la letteratura, la filosofia, il cinema europeo e la psicoanalisi. “Un regista metropolitano” (Fernaldo Di Giammatteo), dunque, i cui esordi risalgono agli anni ’50, come autore televisivo, mentre negli anni ’60 approda in qualità di comico nei night club di New York, costruendo, facendo leva sulle sue debolezze, la tipica figura di individuo sospeso tra nevrosi e timidezza. Del 1965 è la sua prima sceneggiatura cinematografica (What’s new Pussicat?, di Clive Donner), e del 1966 l’esordio nella regia con What’s Up, Tiger Lily?, a dare il via ad una serie di farse spassose, esili e sgangherate, che risentono delle precedenti esperienze televisive e cabarettistiche.

 Comicità slapstick e battute fulminanti continueranno sino al 1977, quando Annie Hall, punto di svolta della sua carriera, aprirà la strada a nuovi toni riflessivi ed autoriflessivi, misti ad  auto indulgenza, ponendo in essere un felice binomio fra regia, volta alla libertà creativa, ed un attento, calibrato, lavoro di scrittura. Ma già  con  Play It Again, Sam, 1972, regia di Herbert Ross su soggetto di Allen, derivato dalla sua omonima pièce teatrale del 1969, andarono a delinearsi i tratti essenziali della sua filmografia: il cinema, quindi l’arte, come possibile ancora di salvezza, ideale ponte di collegamento tra sogno, finzione e realtà (la scena finale, ricalcata, fotogramma per fotogramma e in ogni singola inquadratura da quella celeberrima di Casablanca), l’insicurezza nevrotica riguardo i rapporti sociali, in particolare con l’altra metà del cielo, il determinante ruolo della psicanalisi nella vita di ogni giorno, così come di una buona dose d’ironia e, soprattutto, autoironia, riprendendo quanto scritto inizialmente.

Tutto quello che vorrà dopo, fino ai giorni nostri, risponderà sempre e comunque all’indomita voglia di “fare cinema”, di lasciarsi andare all’ affabulazione del racconto resa dal puro e semplice piacere di raccontare, anche assecondando negli anni la scelta di stare quasi sempre dietro la macchina da presa, per farsi rappresentare da vari alter ego nell’esibire insofferenze ed atteggiamenti propri di un individuo conscio, e probabilmente fiero, nel considerarsi come “un ritratto rinascimentale all’interno di un museo d’arte moderna” (Amabile Giusti, La donna perfetta, Mondadori, 2015), comunque capace di mettersi in discussione per (ri)affermare le proprie sicumere esistenziali, con grazia, ironia ed eleganza di stile.

Woody Allen (Colin Swan, CC BY-SA 2.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0, via Wikimedia Commons)

 La vita e l’arte, in ogni loro manifestazione, nella visione di Allen  si rivelano quindi congrue  fondamenta nell’allestire un fortino atto ad opporre la propria strenua resistenza al tracimante prolasso dell’umanità nel suo complesso, ormai del tutto, o in buona parte, soggiogata da una mera rincorsa al superfluo e al superficiale. “Hai già un’idea per il tuo nuovo libro?” Josh chiese a Baum. “”. “Ti va di condividerla con me?” “Vuoi davvero sentirla?” “”. “Siamo venti miliardi di anni nel futuro. L’esistenza è finita. Non c’è niente. Nessun universo. Nessuna stella, nessuna luce, nessuno spazio, nessun tempo. Il nulla assoluto.” “E che cosa succede?” “A questa parte non ho ancora pensato.” (Che succede a Baum?, La nave di Teseo, 2025).

Immagine di copertina: Woody Allen (Davide Shankbone, CC BY 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/3.0&gt;, via Wikimedia Commons)

Una replica a “Happy Birthday, Woody Allen!”

  1. […] sempre bisogno del cinema di Woody Allen, della sua ironia, leggerezza e acume. Così come c’è bisogno di ricordare una grande interprete […]

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