Mario Monicelli non c’è più. Si è suicidato lanciandosi dal quinto piano dell’ Ospedale San Giovanni di Roma, dove era ricoverato nel reparto di urologia. Ho appreso la notizia con grande sconforto e sono tuttora sconvolto, non certo per la morte in sé o le circostanze e modalità tramite le quali si è verificata, in fondo coerenti con quella gagliarda strafottenza che gli era propria nella vita, pur connotata da una certa malinconia.
Vi potrà sembrare strano, e così è anche per me, avendolo conosciuto solo attraverso le sue opere e le interviste rilasciate negli anni, ma è come se mi avesse lasciato un fraterno amico di vecchia data, capace di aiutarti a considerare la vita, ad osservare la realtà che ci circonda, con uno sguardo diverso, magari velato da un leggero, disincantato, cinismo, facendo sì che quella piega a mo’ di smorfia tra le labbra si trasformi in un sorriso, pur se appena accennato e dal retrogusto un po’ amaro.
Grazie a lui ho potuto capire che il principe della risata, l’immenso Totò, non era soltanto una marionetta dalla comicità stralunata e surreale, ma offriva la possibilità di delineare personaggi a tutto tondo (Guardie e ladri, ’51, coregia di Steno; Totò e Carolina,’55, prima firma autonoma), con una capacità espressiva più realistica e dai toni soffusamente chapliniani. Ho poi ammirato la concreta capacità del nostro cinema di dar vita ad un grande affresco corale ed una fedele ricostruzione storica (La grande guerra, ’59, Leone d’oro a Venezia), facendoci vedere la guerra al di fuori di ogni retorica, dal punto di vista della trincea e di due eroi per caso (Gassman e Sordi), il cui sacrificio, come quello di tanti passerà inosservato.
Ho riso e continuerò a ridere sino alle lacrime nel vedere Monica Vitti interpretare La ragazza con la pistola, ’68, primo ruolo non drammatico dell’attrice e raffigurazione grottesca di una possibile emancipazione delle donne del Sud, così come nel sentire Gassman, nei panni inediti di Peppe “er pantera”, balbettare “è scc…sc…scientifico!” (I soliti ignoti, ’58) per commentare la bontà del colpo progettato ai danni del banco dei pegni, insieme alla scalcagnata banda di cui è a capo, simbolo di un’Italia ancora non in preda al boom economico, sospesa tra tradizione ed innovazione. O ancora sempre lo stesso Gassman cavaliere male in arnese (L’armata Brancaleone, ’66), sullo sfondo di un Medioevo demitizzato, lontano dalla scolastica iconografia oleografica e romantica.
Andando avanti negli anni, Monicelli riuscì sempre a captare le mutazioni in atto negli italici costumi, dando vita a film come Amici miei,’75, da un’idea di Pietro Germi, mettendo in scena le disillusioni di chi non è riuscito a cambiare lo stato delle cose, e trova conforto in un gruppo affiatato di amici che elevano la goliardia a stile di vita, sospesi tra normalità borghese e voglia di metter tutto in burla, o l’estremo tentativo di evoluzione della nostra commedia (Un borghese piccolo piccolo, ’77), volta al tragico grazie, in tal caso, anche ad una magistrale interpretazione di Sordi.
Tra gli anni ’80 e i ’90 non si possono dimenticare opere come Speriamo che sia femmina, ’86, estrema e sentita caratterizzazione della pavidità maschile contrapposta alla generosità femminile, sottolineata comunque con il noto stile graffiante, o Parenti serpenti, ’91, lucido, fosco, spietato e, al solito, lungimirante, ritratto della crudeltà insita nella tipica “buona famiglia”.
Nel 2006 gira Le rose nel deserto, che può considerarsi la summa delle tematiche sviluppate nel corso della sua carriera, mentre nel 2008 alla 65ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia presenta fuori concorso il documentario Vicino al Colosseo c’è Monti, omaggio alla Roma di una volta e suo ultimo lavoro, prodotto dalla Inspire Production di Gianvito e Alessandro Casadonte, con sede a Montepaone (CZ).
Mi sono volutamente soffermato sui titoli a mio parere più rappresentativi, tralasciando altri ugualmente meritevoli di ricordo, per non tediare con il solito “coccodrillo” di circostanza, perché ciò che mi preme sottolineare è come Monicelli, coadiuvato da grandi sceneggiatori ( tra gli altri, Sonego, Age e Scarpelli, Vincenzoni, Suso Cecchi d’Amico) e valorizzando i migliori attori del periodo, sia stato, a parer mio, colui che ha dato al circoscritto genere della “commedia all’italiana” la connotazione forse più autoriale, trasferendo sullo schermo la visualizzazione di un’ Italia che non gli piaceva, una estremizzazione dei suoi vizi mai compiaciuta o compiacente, dal retrogusto amaro, dai toni cinici e beffardi, un melange di farsa e burla dalle ascendenze letterarie.
La risata che scaturisce dalla visione dei suoi film non è sempre immediata, è qualcosa che va oltre la superficie e che si avvicina sempre più all’oggetto dello scherno, invece che prenderne le distanze, acquisendo in tal modo un’inedita connotazione drammatica che convergerà man mano in una spietata e lucida satira di costume, un discorso che si farà sempre più esplicito, riuscendo a coinvolgere gli spettatori, catalizzando attenzione e risate di pari passo.
Difficile che un autore, un personaggio, di tal calibro possa considerarsi veramente scomparso… No, Monicelli non è morto, è semplicemente partito per un viaggio, alla ricerca di un posto dove poter osservare questo pazzo mondo alla luce di un inedito punto di vista.
Ciao Mario, e grazie.





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