
Leopoldo Trieste (Reggio Calabria, 1917; Roma, 2003) merita di essere ricordato, a quasi dieci anni dalla sua scomparsa, nella sua complessità di intellettuale ed artista completo, dalle mille sfaccettature, che ha saputo spaziare dal tragico al comico.
Nasce come drammaturgo, autore di testi teatrali e sceneggiature cinematografiche (Preludio d’amore, ’46, Giovanni Paolucci; Il cielo è rosso, ‘50 e Febbre di vivere, ’53, Claudio Gora; I fuorilegge, ’51, Aldo Vergano), prosegue nel suo percorso professionale come “attore per caso”, adattando il suo estro culturale e dando vita ad un particolare binomio vita-scena che si fortifica e si caratterizza negli anni.
Una timidezza, una ritrosia nel proporsi certamente insolita nel mondo dello spettacolo in genere: la notevole presenza scenica conviveva infatti con una camaleontica attitudine al mimetismo, quasi a volersi scusare di trovarsi davanti alla macchina da presa, connotando elegantemente il tutto con fine ironia e pacato umorismo, dando vita a dei personaggi secondari, i classici “non protagonisti” assolutamente indimenticabili nella loro caratterizzazione, assecondando ora i toni malinconici, ora quelli più grotteschi, anche con un semplice sguardo o espressione del viso.
Dopo la laurea in Lettere a Roma ed aver vinto alcuni premi letterari, Trieste si diploma, nel 1941, in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia della capitale, con il cortometraggio Vecchia Roma; ha già all’attivo alcune scritture teatrali (Una notte ai Quattro di picche, Nascere un uomo, Ulisse Moser, Il lago, Racconto d’amore, Trio a solo), ma è a partire dal ’45 che la sua produzione al riguardo assume caratteristiche inedite ed importanti con La frontiera, che viene rappresentato al Quirino di Roma, proseguendo con Cronaca (’46), primo dramma in Italia sull’Olocausto e N.N. , sulla gioventù del dopoguerra, che avrebbe ispirato Pietro Germi per il film Gioventù perduta (’48).
Trieste si fa portatore del “realismo in teatro” con rappresentazioni scarne, crude, un teatro per stessa ammissione dell’autore, “squadrato coi martelli di pietra”, lo stesso stile che ritroveremo nei suoi unici due film come regista, Città di notte, ’58, e Peccato degli anni verdi, ’60.
Chiamato da Fellini per interpretare lo sposino Ivan Cavalli ne Lo sceicco bianco, ’50, prendendo il posto di Peppino De Filippo, all’ultimo momento risultato non disponibile, delinea con la sua interpretazione uno dei primi ritratti d’italiano piccolo-borghese, tutto “vizi privati e pubbliche virtù”, perso nell’ immaginario alquanto squallido del suo sogno, ingraziarsi lo zio, “alta personalità in Vaticano”, per una rapida carriera d’impiegato comunale al paese.
Da qui in poi sarà un susseguirsi di brevi, salaci interpretazioni, più di 100 film, tre Nastri d’Argento come miglior attore non protagonista (’65, Sedotta e abbandonata, Pietro Germi; dove interpretava un nobile decaduto; ’85, Enrico IV, Marco Bellocchio; ’96, L’uomo delle stelle, nel ruolo di un reduce muto, di Giuseppe Tornatore, per il quale riceve anche il David di Donatello).

Tra le altre caratterizzazioni possiamo ricordare il commediografo de I vitelloni di Fellini, intimamente ed ironicamente autobiografico, il pittore Carmelo Patanè di Divorzio all’italiana, Pietro Germi, film che gli dà la grande notorietà o, andando avanti negli anni, il Sig. Roberto nel Padrino Parte II , ’74, di Francis Ford Coppola, il prete censore munito di campanella in Nuovo Cinema Paradiso, ’88, di Tornatore, senza dimenticare, a dimostrazione dell’estrema duttilità, i lavori televisivi, dal Circolo Pickwick, ’68, a Il cane di terracotta, 2000, episodio della serie tv de Il Commissario Montalbano.
Non mi va però di sminuirne la figura nell’ambito di un freddo elenco, soprattutto per non evidenziare l’avvertita mancanza di un simile personaggio a tutto tondo nell’attuale panorama cinematografico italiano e nella nostra società, dove sgomitate e sgambetti per assicurarsi i noti 15 minuti di celebrità a filo di telecamera, sono ormai divenuti più importanti di un sorriso, anche solo timidamente accennato, di un porgersi al pubblico apparentemente sommesso; Trieste è stato non protagonista sullo schermo, ma protagonista assoluto nei cuori di quanti lo hanno seguito e amato per anni.





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