Parziale delusione per Sole a catinelle, il ritorno di Checco Zalone sul grande schermo due anni dopo Che bella giornata, a sua volta seguente al debutto del 2009 con Cado dalle nubi. Sempre diretto da Gennaro Nunziante, anche autore della sceneggiatura insieme allo stesso Zalone, il film scricchiola e segna il passo più volte nel corso della narrazione, per due fattori, coordinati fra di loro: aver alzato leggermente l’asticella dei toni, vagamente più ambiziosi, e l’incapacità di reggere quest’ultimi con un adeguato supporto attoriale, di scrittura e registico. Nei citati precedenti lavori della premiata ditta, apprezzati da chi scrive (con qualche riserva), veniva infatti allestita una messa in scena piuttosto semplice, strutturata su di uno script lineare, anche troppo, senza particolari slanci, anzi forse mitigato da un’eccessiva “pulizia” riguardo l’irriverenza originaria del personaggio, quella propria dei suoi testi musicali.
La capacità di far (sor)ridere si delineava grazie ad una comicità di situazione, elementare, giocata spesso su studiate storpiature o errori grammaticali, mai fini a sé stessi, con i suoi bravi antecedenti nell’avanspettacolo.
Inoltre il comico pugliese, a mio avviso, riusciva a sfruttare l’insita potenzialità di divenire una nuova maschera del nostro cinema, in rappresentanza, triste specchio dei tempi, non più dell’uomo medio, di sordiana memoria, ma mediocre, conscio della sua ignoranza, il quale affronta la vita con disinvoltura ed estremo candore, facendo sì che siano le varie situazioni ad adattarsi al suo modus operandi. Queste caratteristiche si rinvengono anche in Sole a catinelle, ma addomesticate nella loro estemporaneità per essere inserite in una dimensione cinematografica più definita e compiuta.
Tentativo lodevole, che avrebbe però meritato una maggiore incisività dei personaggi secondari ed una loro effettiva interazione col protagonista (penso al ruolo di Ivano Marescotti nei due precedenti film), la cui comicità si ritrova presto col fiato corto ed evidenzia una sovrastimata capacità di mattatore.
Ma la lista dei parenti è destinata ad assottigliarsi e così l’allegro venditore si ritroverà sul lastrico, mentre Daniela, insieme alla sue colleghe, sta per perdere il posto, causa chiusura dello stabilimento. Checco non si dispera, ora deve pensare come onorare la promessa rivolta al figlio Nicolò (Robert Dancs), una vacanza da sogno se avesse preso “tutti dieci in pagella”: considerato che il pargolo ce l’ha fatta, occorre mettersi in viaggio, verso il Molise però, alla ricerca degli ultimi parenti rimasti. Tutto cambierà una volta che i due incontreranno Zoe (Aurore Erguy), ricca industriale, e il suo figliolo Lorenzo (Ruben Aprea)…
Il ritmo cambia dall’incontro con Zoe e Lorenzo, bambino afflitto da mutismo selettivo “guarito” dall’intervento di Checco, e relativo ingresso nel mondo della borghesia bene, mode e tendenze a sinistra, ma capitali in viaggio verso le Isole Cayman grazie alla fantasia finanziaria di amministratori delegati senza scrupoli, in barba alle fabbriche che chiudono e agli operai senza lavoro: tutto assume un tono straniante, fra qualche gag indovinata (le magliette di Che Guevara) e altre un po’ meno (il picnic vegano ad esempio, o la solita tirata verso i film “impegnati”, la partita a golf), l’one man show inizia a perdere colpi, nella mancanza di una valida contrapposizione (di battute, dialoghi, situazioni) espressa dagli altri interpreti (Marco Paolini in particolare), come scritto ad inizio articolo, i quali divengono nient’altro che uno statico tiro a segno per le trovate espresse dalla sceneggiatura (l’ingresso nella loggia massonica).
Inoltre, per colmare alcuni evidenti momenti di stasi, anche registica, è stato previsto l’inserimento di tutta una serie di canzoni, le quali danno a vita ad alcune scene a metà strada tra l’italico musicarello d’antan e lo Zecchino d’Oro: per quanto divertenti, alla lunga creano un effetto saturazione.