
New York, fine anni Settanta. Isaac Davis (Woody Allen), 42enne scrittore televisivo nevrotico ed insicuro, è a cena in un ristorante con l’amico professore Yale Pollack (Michael Murphy), la moglie di questi, Emily (Anne Byrne) e la 17enne Tracy (Mariel Hemingway). Con quest’ultima Isaac ha una relazione, vissuta fra mille titubanze causa la differenza di età (“sono più vecchio di suo padre”) e i trascorsi rappresentati da due fallimentari matrimoni alle spalle, l’ultimo con Jill (Meryl Streep), che l’ha lasciato per una donna. La conversazione durante il desco e nel corso della passeggiata che segue lungo le vie di Manhattan è attraversata dal classico chiacchiericcio tra intellettuali, citazioni colte, considerazioni bislacche e qualche battuta.
Nel mentre Yale confida ad Isaac di essersi innamorato di Mary Wilkie (Diane Keaton), giornalista, che il nostro avrà occasione di conoscere nel corso dell’inaugurazione di una mostra, risultandogli spocchiosa e saccente, in particolare quando lancia velenosi strali a certi suoi numi tutelari, come il regista svedese Ingmar Bergman. Un’improvvisa crisi di coscienza porterà Isaac ad abbandonare il programma televisivo per dedicarsi alla scrittura di un libro che ha in mente da tempo ed intanto nel corso di un party rincontrerà Mary: i due dopo una notte passata insieme a chiacchierare passeggiando per le strade della Grande Mela inizieranno a frequentarsi, pare vi sia una certa intesa fra di loro e poi lei è convinta che Yale non divorzierà mai, mentre lui ormai è deciso a lasciare Tracy, prossima alla partenza per Londra, così da frequentare l’Accademia d’arte drammatica.

La relazione andrà avanti per qualche mese, fin quando Mary si renderà conto di non aver mai smesso di amare Yale, mentre Isaac, ormai solo, riflettendo sulle cose che possono dar senso alla vita (Groucho Marx, L’educazione sentimentale di Flaubert, Brando, Sinatra, “quelle mere e pere di Cézanne”…) include nel novero il viso di Tracy… Atto d’amore per la città natale, New York, e al contempo acuta riflessione dolce-amara, giocata sul filo di una sottile ma spesso pungente ironia, relativamente alle trasformazioni in atto nella società da un punto di vista sociologico e morale, in particolare nell’ambito dei rapporti umani e sentimentali, Manhattan rappresenta nella filmografia di Allen un felice compendio tra i precedenti Interiors, 1978, dolentemente bergmaniano ed Io e Annie, 1977.
Titolo quest’ultimo idoneo a rappresentare l’opera di svolta, improntata ad una comicità più strutturata e riflessiva, scaturente in particolare dagli accurati dialoghi, rispetto alle farse degli esordi, spesso esili e sgangherate, per quanto spassose nella loro miscellanea fra slapstick e battute fulminanti, eredità dei trascorsi televisivi e cabarettistici d’inizio carriera. Pregio essenziale di Manhattan, oggi come ieri, mantenendo quindi intatto il suo fascino nel tempo, è riuscire ad unire un’esemplare compostezza formale a un motteggio morale dai risvolti psicoanalitici e comportante riflessi esistenziali, caratterizzato da una disarmante e calviniana leggerezza.

La “Grande Mela” appare quindi fotografata in un sfavillante bianco e nero da Gordon Willis, connotata ulteriormente dalle musiche di George Gershwin, spesso coordinate all’essenzialità rigorosa delle riprese, con un ampio ricorso a sinuose carrellate all’indietro nel “pedinare” i personaggi seguendoli nel loro quotidiano, ed infine ben resa nelle sue proporzioni visuali ed emozionali dal formato widescreen. Riguardo invece il secondo aspetto, risalta un ottimo lavoro di scrittura (lo stesso Allen, insieme a Marshall Brickman) incentrato, con più di un manierismo autobiografico, su vezzi ed idiosincrasie degli esponenti del mondo intellettuale newyorkese, cui si accompagnano le pregevoli interpretazioni attoriali, fluidamente naturali, realistiche.
Una particolare menzione al riguardo va al personaggio delineato da Diane Keaton, la cui ostentata spocchia appare come uno scudo protettivo volto a proteggere fragilità ed insicurezze. La dolcezza espressa da Mariel Hemingway nei panni di Tracy, lo spontaneo candore nell’affacciarsi sul mondo, si staglia quale radioso raggio verde ad illuminare l’altrui esibita sicumera nel fronteggiare i marosi della vita (“Sei mesi non sono tanti… E non è che tutti si guastino. Bisogna avere un po’ di fiducia, sai, nella gente”, rivolta ad un titubante Isaac, il quale teme che il soggiorno a Londra della fanciulla possa minare il loro rapporto).

Ecco che l’ironia, espressa anche, se non soprattutto, nei confronti di se stessi, viene a palesarsi, per dirla con Romain Gary, come “una dichiarazione di dignità, un’affermazione della superiorità dell’uomo su ciò che gli capita”, così da ovviare a quel senso di inadeguatezza e di solitudine che ti prende quando vedi il mondo, il tuo mondo, cambiare repentinamente, costringendoti o ad assecondare i suoi mutamenti, accompagnandoli coi tuoi, o a restare sospeso in un’incertezza di fondo. Incertezza che si profila quale leitmotiv dominante sin dall’inizio della narrazione: le note di Rhapsody in blue sull’avanzare frammentario delle immagini di Manhattan vista in vari periodi dell’anno e in diversi momenti della giornata mentre udiamo la voce over di Isaac che corregge continuamente l’incipit del suo libro.
Viene allora visualizzata la dicotomia tra l’immutabilità tutta esteriore di una città “idolatrata smisuratamente”, “metafora della decadenza della cultura contemporanea”, mentre l’estrema mutabilità dei componenti di una “società desensibilizzata da droga, rumore, televisione, crimine e immondizia” crea una convulsa alternanza tra vuoto spirituale, alienazione, ricerca di profondità nel contatto umano, la quale va poi a scontrarsi puntualmente con un’ altrettanto esibita precarietà nei rapporti coi propri simili.

Allen sembra volerci dire, andando dal particolare all’universale, che l’unica certezza volta ad una possibile salvezza (dal degrado, dalla perdita del senso di ogni bellezza, dalla mancanza di qualsivoglia condivisione espressa al di fuori del proprio ambiente di appartenenza) può essere rappresentata tanto nel lasciarsi coinvolgere dalla continuità della vita, recitando giornalmente la nostra parte sul palcoscenico offertoci (Shakespeare), quanto dall’assunta consapevolezza del proprio apporto, quest’ultimo da intendersi sia nella sua generalità, sia nella sua specificità (professionale, culturale, artistica), espresse ambedue, sempre e comunque, da ogni singolo individuo in quanto tale.
Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera (Ed è subito sera, Salvatore Quasimodo, 1930)
Immagine di copertina: Cineteca di Bologna ©






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