Destinazione Piovarolo (1955)

Roma, 1922. Antonio La Quaglia (Totò), partecipa ad un concorso indetto dalle FS per capostazione di III Classe, 850 posti, e lo supera. Giunto però ultimo in graduatoria viene destinato a Piovarolo, un accogliente paesello, almeno dalle informazioni riportate in una guida turistica. In realtà La Quaglia si renderà presto conto di come la realtà sia ben diversa: in stazione si ferma un solo treno in tutta la giornata, può contare soltanto sull’aiuto di Beppa (Tina Pica), casellante/guardia sala/assistente ai capostazione celibi, unici svaghi le partite a scacchi via telegrafo con il collega di una vicina stazione e la frequentazione della locale osteria-Circolo culturale, dove si ripete ogni giorno l’ “attrazione” offerta da un ex garibaldino (Ernesto Almirante), l’aver sentito Garibaldi pronunciare la storica frase, rivolto a Bixio: “Caro Nino, qui si fa l’Italia o si muore”. Proprio questa citazione, una volta che  il vecchietto sta per morire, è contesa da due deputati giunti in paese, uno socialista e l’altro popolare. Una situazione dalla quale La Quaglia cerca di trarre vantaggio per ottenere un agognato trasferimento, ma intanto incombe l’avvento del regime fascista ed il nostro non sa come adeguarsi, tanto che su di lui gravano pessime note di qualifica.

Totò

Unica soluzione per un possibile avanzamento di carriera, sposarsi ed avere dei figli: si unisce dunque in matrimonio con Sara (Marisa Merlini), maestra, ma i guai continuano, dato che la consorte non è di razza ariana. Passano gli anni, il regime è stato abbattuto, l’Italia è una Repubblica, La Quaglia si trova contro moglie e figlia, che gli rimproverano la sua inettitudine. Finché un giorno, causa una frana, è costretto a fermare il treno sul quale viaggia il Ministro delle Comunicazioni…
Diretto da Domenico Paolella e sceneggiato da Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e Stefano Strucchi, Destinazione Piovarolo è il secondo film, dopo Il coraggio, sempre Paolella alla regia, prodotto dalla DDL, società fondata da Totò con un gruppo di amici e collegata al fratello del produttore Alfredo De Laurentiis, oltre che all’amministratore dell’attore partenopeo, Renato Libassi.
L’opera in questione appare strutturata come una classica commedia all’italiana, ovvero la rappresentazione di una situazione reale cadenzata da toni ironici, per quanto ancora gli stilemi della farsa finiscano col prevalere su quelli della satira propriamente detta.

Totò e Pina Pica

Viene dunque messo in scena attraverso la figura di Antonio La Quaglia, delineata con toccante realismo e profonda umanità da Totò, un arco temporale relativo alla storia del nostro paese che va dal 1922 al 1955, offrendo evidenza ad uno stato delle cose sottilmente permeato dal noto assunto gattopardesco “tutto deve cambiare perché tutto resti com’è”, frase idonea a caratterizzare sia quanti detengono il potere, sia quanti ne sono soggetti, magari non assumendosi in tale ultima eventualità alcuna responsabilità che non sia quella di mettere in atto il proprio dovere ed in virtù di ciò attendere che “la provvidenza di turno” riconosca l’attività svolta e si adoperi al riguardo. Emblematica a tal proposito la sequenza dell’arrivo al capezzale dell’ex trombettiere garibaldino dei due rappresentanti di partito opposti, che cercano di modificare, abitudine inveterata e quanto mai attuale, la storia a loro vantaggio, fino a giungere ad un compromesso di governo, trascurando però, presi dalle beghe di palazzo e circoscritti nei loro interessi, la situazione reale del paese, che finirà presto nelle mani di un solo uomo al comando.
In Destinazione Piovarolo il sempre immenso Totò più che un rappresentante dell’uomo medio è il ritratto dell’uomo mediocre, nessuna particolare qualità da esibire, incline ad assecondare con fare qualunquistico i potenti di turno, così come questi ultimi sono pronti ad approfittarsi di lui e delle sue aspirazioni di carriera, legittime.

Paolo Stoppa e Totò

In certo qual modo la rappresentazione offerta dal principe della risata del povero capostazione, dai tratti intimamente dolenti ma mai scadenti nel patetismo, confinato per l’eternità (e forse anche oltre…) nella stazione di III classe dello scalcinato paesello può ricordare, credo sia stato notato da molti,  il sottotenente Giovanni Drogo protagonista del romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari (1940), perennemente alla ricerca di un senso da offrire alla propria esistenza, nell’incapacità di andare oltre la propria dimensione individuale. Il personaggio di La Quaglia offre dunque delle sfumature caratteriali degne di nota, rese da Totò con encomiabile misura, ponendo da parte, ancora una volta, surreali sberleffi, coreografiche piroette e mimica irriverente, riuscendo in tal guisa a rimarcare l’accondiscendenza di fondo espressa dal capostazione verso “gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna” (William Shakespeare, Amleto), il suo non voler “prendere le armi contro un mare di triboli per disperderli combattendo”, preferendo attendere una risposta dall’alto che dia un significato ai suoi silenti sacrifici di una vita, pur consapevole, forse, che non arriverà mai, accontentandosi per sé e la propria famiglia del minimo indispensabile per fronteggiare i marosi della quotidiana  esistenza.

Marisa Merlini e Totò

Oltre alla suddetta prova recitativa di Totò, lungo l’arco narrativo si stagliano ben nitide le prove attoriali dell’intero cast, da Paolo Stoppa a Tina Pica, senza dimenticare abili caratteristi come Mario Carotenuto, Giacomo Furia, la straordinaria Marisa Merlini e un incisivo Leopoldo Trieste nella parte di un portaborse, il cui sguardo allucinato rivela tutta la protervia di un potere forte con i deboli e debole con i forti, come si suole dire.  In conclusione, credo che Destinazione Piovarolo, pur soffrendo di una regia a volte anodina, strettamente di mestiere, per quanto idonea a sottolineare con efficaci primi piani ed accorte inquadrature la bontà delle prove recitative, cui va ad unirsi una sceneggiatura certo valida ma a tratti incerta nell’accostare dramma ed ironia, sia un film da rivalutare, in particolare per la naturalezza espressiva con cui riesce a ritrarre un’Italia sempre paese e mai nazione, incline certo ad un  progresso materiale, ma orfana di un  concreto mutamento.

 


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