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Roma, tempi nostri. Numa Tempesta (Marco Giallini), facoltoso imprenditore (gestisce un fondo di un miliardo e mezzo di euro), vive in un lussuoso albergo, che ha comperato in attesa di poterlo rivendere. Salutista, di bell’aspetto e dotato di un naturale carisma, il nostro conduce una vita solitaria, a parte i rapporti di lavoro ed il momentaneo “conforto” offerto da tre “radiose” escort, studentesse in Psicologia, per quanto, manifestando una certa anaffettività, appaia piuttosto distaccato nel relazionarsi col prossimo.
Certo, vi è sempre il denaro a svolgere il compito di opportuno mediatore e congruo placebo per ogni malanno, ma i fantasmi di un recente passato, i rimproveri paterni in particolare, sono pronti a riapparire ogni notte, impedendogli di dormire. Tempesta intende dare vita ad un grande progetto, trasformare una zona brulla del Kazakistan in un centro residenziale, è riuscito a convincere gli investitori, però i suoi legali lo informano di come una condanna inflittagli qualche anno addietro sia ora divenuta esecutiva: unica alternativa alla galera, trascorrere un anno all’interno di un centro d’accoglienza, prestando opera d’assistenza e conforto ai bisognosi. Con i consueti modi affabili e compiacenti, l’uomo d’affari cercherà d’ingraziarsi la direttrice del centro, Angela (Eleonora Danco), ma quest’ultima, fervente cattolica ed attivista di ferro, ha dedicato dieci anni della sua vita all’attività di volontariato, gli darà parecchio filo da torcere.

Marco Giallini (Movieplayer)

Non resta che provare a stringere amicizia con il gruppo di derelitti frequentanti abitualmente il ricovero, cui tocca il compito di dare una valutazione all’operato di Tempesta, se non sprigionando empatia, eventualità del tutto impossibile, aprendo il portafoglio, come gli suggerisce Bruno (Elio Germano), sorta di leader dei diseredati, che si è ritrovato sulla strada insieme al figlio Nicola (Francesco Gheghi), preadolescente, probabilmente per un dissesto finanziario; d’altronde, come recita un celebre assunto, l’uomo non è corrotto, ma corruttibile
Diretto da Daniele Luchetti, anche autore della sceneggiatura insieme a Giulia Calenda e Sandro Petraglia, Io sono Tempesta trae ispirazione dalla realtà socio-politica del nostro paese, incentrando però l’iter narrativo, per stessa ammissione del regista, più che sul realismo propriamente detto o sulla satira graffiante e spesso impietosa che era propria della commedia all’italiana d’antan, sui toni predominanti di una favola  surreale (mi è sovvenuto in mente, come credo a molti, Miracolo a Milano, Vittorio De Sica, 1951, su soggetto di Cesare Zavattini), supportati anche visivamente dalla sinergica combinazione fra fotografia (Luca Bigazzi) e scenografia (Paola Comencini), volte a prediligere, rispettivamente, una commistione fra fredda fluorescenza e grigiore.

Giallini ed Elio Germano (Movieplayer, foto di Emanuela Scarpa)

Il risultato è un film la cui visione può lasciare disorientati, considerando in particolare le precedenti opere di Luchetti (il pensiero corre precipuamente a Il portaborse e a La nostra vita), per una scomposta mescolanza fra cinismo e bonarietà, ma che riesce comunque a mantenere una sua valenza di moderna parabola, al cui interno risaltano, più che le psicologie ben definite e concrete relative ai personaggi, la schematizzazione di determinate tipologie umane. L’obiettivo, centrato in buona parte, è quello di offrire spazio alla visualizzazione concreta della potenzialità espressa dal “dio denaro” a costituire una reale cartina di tornasole nel rendere possibile un livellamento sociale repentino ed omologante, mettendo da parte qualsivoglia residuo valore in cui credere. Tempesta, reso con sensibilità e misura da Giallini, è il tipico cialtrone traffichino e filibustiere, convinto, e i fatti sembrano dargli ragione, che ogni cosa abbia il suo prezzo, da un raro flipper d’epoca agli esseri umani, comunque conscio della sua solitudine e del suo tormentato stato esistenziale, al di là dell’esibita plutocratica sicumera, mentre Bruno, interpretato avallando una gioviale sbruffoneria da Germano, ne rappresenta il corrispettivo proletario: emblematica la sequenza in cui lui e il figlio, dai cui sguardi intuiamo quanto abbia già capito come giri il mondo, indossano i pigiami di seta regalo di Tempesta; vista la considerazione ottenuta dai compagni di sventura, scatta subitaneo il desiderio di dare nuova linfa al suo status, nel minor tempo possibile e non del tutto lecitamente.

Germano e Francesco Ghenghi (Movieplayer, foto di Emanuela Scarpa )

Angela, ferma depositaria di un proprio credo, non solo religioso, che intende portare avanti e condividere, unico personaggio positivo, oltre che realmente umano nella sua momentanea sbandata e celere “resurrezione”, cui la Danco offre modi forse troppo teatrali, meritava una maggiore incisività già in fase di scrittura, pur nella sua utilità a rafforzare l’idea portante di cui sopra, un’eguaglianza omologante fra ricchi e poveri che non ha nulla di evangelico o ideologico, bensì, più semplicemente, identica capacità di trarre profitto da una situazione non certo limpida, così da ricavarne personale vantaggio, senza alcuna fuga alla ricerca “di un regno dove buongiorno voglia dire veramente buongiorno” quale rifondante, ed universale, salvezza, citando nuovamente Miracolo a Milano . Diretto “classicamente”, assecondando  fluidità ed una ripartizione in più atti (ognuno dei quali declinato funzionalmente verso il descritto tema di base), privilegiando campi larghi rispetto ai primi piani, così da delimitare con attenzione ambienti e personaggi (da sottolineare riguardo quest’ultimi come i reietti siano interpretati da “gente presa dalla strada”, usando un’espressione propria del nostro Neorealismo), Io sono Tempesta offre molte sequenze particolarmente riuscite.

Eleonora Danco, Daniele Luchetti, Giallini (foto di Emanuela Scarpa)

Fra queste, una su tutte, l’apertura con il risveglio di Tempesta e la sua corsa mattutina all’interno dell’albergo vuoto, la cui impronta visiva ricorda l’Overlook Hotel di Shining, richiamato  anche nella sequenza di un giro lungo i corridoi con un’automobilina guidata da Nicola, che andrà ad arrestarsi di fronte ad un orrore ben tangibile.
Non rientra, in conclusione, nell’odierno calderone delle italiche commedie “pronto cuoci”, magari riciclate sfruttando quanto già realizzato da altri con minimi adattamenti in guisa di specchietto per le allodole, vuoi per l’intuizione del soggetto e cura nel metterlo in scena, vuoi per rendere comunque valido proscenio al noto detto di Confucio, ripreso anche da Mao,  Grande è la confusione sotto il cielo. Quindi la situazione è eccellente, che credo ben rispecchi l’attuale condizione del nostro paese; avrebbe però meritato, pur nel dichiarato proposito di voler realizzare una farsa in forma di opera buffa dalla portata favolistica, una caratterizzazione più mordace  in fase di sceneggiatura, così da andare oltre il fin troppo classico parametro della “gradevolezza complessiva” ed offrire quindi maggiore concretezza autoriale.

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