Qualche breve considerazione su altri due titoli italiani resi recentemente disponibili sulla piattaforma web RaiPlay, ovviando alla mancata uscita in sala causa l’emergenza sanitaria tuttora in corso. Se i precedenti Bar Giuseppe (Giulio Base) e Magari (Ginevra Elkann) mi avevano favorevolmente colpito nel loro insieme, altrettanto non posso scrivere per La rivincita, esordio registico sul grande schermo di Leo Muscato, drammaturgo e regista di teatro, anche autore della sceneggiatura insieme a Michele Santeramo (cui si deve l’originario soggetto teatrale, per la regia sempre di Muscato, da cui ha inoltre derivato l’omonimo romanzo), e Abbi fede, diretto, interpretato e sceneggiato (in quest’ultimo caso con Federico Baccomo) da Giorgio Pasotti, alla sua seconda regia dopo Io, Arlecchino, 2015, remake pressoché pedissequo ma non del tutto convincente di Adams aebler (Le mele di Adamo), pregevole commedia nera danese del 2005 per la regia di Anders Thomas Jensen. Inizio dunque a scrivere de La rivincita, la cui narrazione vede in terra pugliese due fratelli, Vincenzo (Michele Cipriani), contadino, sposato con Maja (Deniz Özdoğan ), incinta, e Sabino (Michele Venitucci), coniugato con Angela (Sara Putignano), un figlio, proprietari e gestori di un chiosco di fiori accanto al cimitero, fronteggiare pressanti problematiche, esistenziali e lavorative. Il primo, infatti, subisce l’esproprio del terreno per consentire il passaggio di una nuova arteria autostradale, dietro un irrisorio indennizzo, trovandosi così disoccupato, sollecitando la moglie ad abortire, “perché le cose normali non ce le possiamo permettere più”, salvo poi, dopo aver trovato lavoro in nero e altre “opportunità” quali, fra l’altro, elargizione di sangue, non per vie legali, e richiesta di soldi alla malavita locale, ritrovare il desiderio di paternità, che comporterà ulteriori vicissitudini, nelle quali si troverà coinvolto anche Sabino, a sua volta alle prese con la consorte in crisi d’identità, pronta a partire come volontaria per l’Africa, l’attività che non rende un centesimo ed un figlio complessato ed orfano d’attenzioni…

Se il merito precipuo del film è certo quello di volgere uno sguardo attento ad un quotidiano “normale”, gente comune alle prese con ambasce che diventano via via sempre più drammatiche all’interno di una realtà disagiata, ancor di più in quanto non sempre suffragata concretamente dall’attenzione istituzionale, il virare dal realismo propriamente detto verso toni che si tingono gradualmente di una certa surrealtà non appare del tutto sostenuto da una regia che mantiene l’impostazione teatrale d’origine né da un lavoro di scrittura non propenso a delineare un vero e proprio sviluppo psicologico dei vari personaggi, le cui caratteristiche risaltano per lo più grazie alle riuscite interpretazioni attoriali, pur non arrivando mai, almeno riporto la mia personale sensazione, a sviluppare un tangibile trasporto empatico. Quest’ultimo è comunque avvertibile, troppo tardi, sul finale del film, quando avrà luogo la rivincita del titolo, ovvero la risolutiva solidarietà collaborativa tra individui alle prese con identici problemi, la volontà di farvi fronte comune, senza attendere salvifici salvamenti elargiti “dall’alto”, continuare a vivere nel coltivare, sempre e malgrado tutto, la speranza se non di un mondo diverso almeno di un’esistenza dignitosa, rifuggendo la “normalità”, ove quest’ultima voglia significare adeguamento ad uno stato di cose cui sia estranea l’idea di un pur minimo senso di umanità. Riguardo Abbi fede, il plot, come scritto in apertura, riprende fedelmente, ambientazione italica, Alto Adige, a parte, ovviamente, quello del film danese originario: Adamo (Claudio Amendola), neofascista rude e corpulento, giunge in una sorta di mondo a parte, novello Eden, con tanto di albero di mele, ad uso e misura della comunità di recupero gestita da Padre Ivan (Giorgio Pasotti), che ha fa i suoi componenti un ex sciatore alcolizzato, Gustav (Robert Palfrader), un rapinatore di stazioni di servizio, Khalid (Aram Kian), cui si aggiungerà presto una donna, in dolce attesa, Sara (Gerti Drassl).

Il sacerdote ha un quantomeno curioso modo di fare, nonostante i problemi siano sotto gli occhi di tutti, anche Adamo non faticherà certo a rendersi ben presto conto della situazione, ovvero ogni cosa gli appare permeata dalla grazia divina, incline a manifestarsi a suo dire anche in forme poco consone alla tradizionale fama salvifica pur di fronteggiare l’insinuante Satana e le sue tentazioni, per cui, ad esempio, Gustav ormai è guarito dall’etilismo, Khalid non ha manie dinamitarde e lui stesso non ha certo un figlio, retaggio di un doloroso passato che si estende fino alla sua infanzia, obbligato su una sedia a rotelle… L’originale Le mele di Adamo riusciva a mescolare senso del grottesco, ironia nera, sano cinismo, nel prendere posizione nei confronti di una fede panacea di ogni male, espressione di un credo indottrinato, atto ad insinuarsi nell’animo umano con i suoi modelli di comportamento e la conseguente idea del peccato, il quale in fondo non è altro, per dirla con Pasolini (La religione del mio tempo), che “reato di lesa certezza quotidiana”; visualizzava infine, giungendo ad un finale beffardo, l’interiorizzazione di una personale spiritualità e conseguente libertà nell’affidarsi al divino o, meglio, all’immanenza del sacro nell’esistenza quotidiana, pur fra i tanti dubbi o incertezze che ne accompagnano, da sempre, la sua esternazione, nella continua ricerca, consapevole o meno, di una necessità d’assoluto. Tutto questo in Abbi fede è solo potenziale, insito nella trama derivativa, incline a trasmutarsi presto in farsa, complice anche la caratterizzazione macchiettistica dei vari personaggi, a parte forse lo stolido Adamo reso con efficacia da Amendola e soprattutto il Dottor Catalano reso da Roberto Nobile, con un Paciotti che nell’interpretare Padre Ivan personalmente mi ha ricordato il Ned Flanders de I Simpson in versione caricaturale, più che una persona mentalmente disturbata, incline ad usare la fede quale paravento dei propri ed altrui fallimenti esistenziali. Peccato, perché la regia ha qualche valida intuizione, vedi la sequenza iniziale, quando sembra che l’occhio divino prenda contatto con la Terra, che si collega a quella finale, lo sguardo, a missione compiuta, ritorna verso l’alto, ma nel complesso resta la sensazione di “poche idee ma confuse” (Ennio Flaiano), insieme a quella, ancora più persistente, di un’occasione mestamente mancata.

L’ha ripubblicato su Lumière e i suoi fratelli.
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