Addio ad Enrique Irazoqui: Il Vangelo secondo Matteo (1964)

Enrique Irazoqui (scacchipress)

Ci ha lasciato nella notte, a Barcellona, sua città natale (1944), Enrique Irazoqui, noto per aver rivestito il ruolo di Gesù ne Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pier Paolo Pasolini, il quale lo scelse una volta rimasto colpito dal suo volto, naturalmente ieratico, anche severo, che tanto gli ricordava alcuni dipinti di El Greco, dallo sguardo ora “feroce” ora consolatorio, nonché incline in alcune sequenze ad enigmatici sorrisi, rivolti soprattutto ai bambini.
Militante comunista ed antifranchista, Irazoqui giunse nel nostro paese dietro mandato del sindacato universitario clandestino di Barcellona, così da convincere gli intellettuali italiani più in evidenza ad appoggiare la causa contro la dittatura. Ultimamente era apparso ne il video de Il povero Cristo, girato a Riace (RC), diretto da Daniele Ciprì, brano di Vinicio Capossela scritto insieme a Miriam Rizzo, ancora una volta nei panni del rabbi di Nazareth, “sceso dalla croce”, come recitano alcuni versi della canzone ad elargire il suo sguardo sconsolato e mai accondiscendente, rivolto ad un’umanità che lo costringerà  a prendere nuovamente posto sul legno “Con il dono che a tutti qui ha portato / La buona novella dove per scritto è messo ama il prossimo tuo come fosse te stesso / Ma troppo era difficile forse anche oltre l’umano così si è ritirato, all’uomo ha rinunciato / Una veste di silenzio si è cucito addosso / Il povero Cristo tace, grida all’uomo a più non posso”.

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(ExPartibus)

Dedicato “alla cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII”, Il Vangelo secondo Matteo, scritto e diretto da  Pier Paolo Pasolini, resta ancora oggi, a 56 anni dalla presentazione alla 25ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (dove ottenne il Leone d’Argento e fu oggetto di critiche anche violente dopo la proiezione), uno dei pochi film dall’autentica ispirazione religiosa. Ateo e marxista, Pasolini si accostò al tema del sacro con distaccato rispetto, attuando un’innovativa visualizzazione del testo di Matteo, senza cedere alla spettacolarizzazione ed alla facile oleografia dogmatica, bensì rimarcando un particolare punto d’intersezione fra la spiritualità, da intendersi come personale interiorizzazione di una libertà nell’affidarsi al divino o, meglio, all’immanenza del sacro nell’esistenza quotidiana (pur fra i tanti dubbi o incertezze che ne accompagnano, da sempre, la sua esternazione) e la violenza “brutale” del messaggio nuovo proprio del Vangelo. La “buona novella” si staglia quindi sullo schermo in tutta la sua purezza ed integrità, prendendo anche le distanze da un credo indottrinato, incline quest’ultimo ad insinuarsi nell’animo umano con i suoi modelli di comportamento e la conseguente idea del peccato, il quale in fondo non è altro, per dirla con lo stesso Pasolini (La religione del mio tempo), che “reato di lesa certezza quotidiana”.
Girato in gran parte nel Sud Italia, con location, fra l’altro, a Barile, Le Castella, Matera, Massafra, visto che, a detta del regista, la Palestina sembrava ormai aver perso la sua originaria primitività, prediligendo attori non professionisti, amici intellettuali, comparse scelte tra la popolazione locale, il film narra fedelmente la vita di Gesù (Enrique Irazoqui, doppiato da Enrico Maria Salerno) seguendo il testo di Matteo, dall’annuncio della nascita al battesimo, fino a giungere all’entrata a Gerusalemme, dove avranno luogo passione, morte e resurrezione; ne viene messa in risalto tutta la sua umanità e contraddittorietà di uomo tra gli uomini, fiero e combattivo.

Enrique Irazoqui (IlSussidiario)

La macchina da presa è sempre in movimento, ora segue a distanza i discorsi di Gesù, quasi una presa diretta in stile documentaristico, ora si avvicina a scrutare i volti della povera gente, i loro sguardi, così da evidenziare quel misto d’incredulità e rassegnazione proprio di chi vede nel nutrire un benché minimo barlume di speranza l’unica forma di lotta possibile. Eccola poi soffermarsi in primissimo piano a riprendere la fissità ottusamente ieratica delle classi sacerdotali dominanti, restie a comprendere la novità del messaggio del sacro che scende sulla terra, ormai idoneo a materializzarsi in una dimensione inedita, abbandonando le forme di mera e demistificata dottrina, mentre, portata a spalla segue, in stile cinema verità, i processi cui viene sottoposto Gesù, sempre mantenendo una distanza osservatrice. Il Vangelo pasoliniano è un film che vive inoltre della vivida alternanza tra sequenze dialogate ed altre del tutto mute, quest’ultime intese a sottolineare momenti di silente estasi nell’accettazione di un destino cui originariamente è estranea la propria volontà (il primo piano di Maria giovane, interpretata da Margherita Caruso, incinta, il suo sguardo rassegnato ma fiero, in alternanza a quello di Giuseppe, Marcello Morante, dolorosamente interrogativo), ma anche strazianti turbamenti d’animo (la notte nel Getsemani, la morte di Giuda, Otello Sestili, il rinnegamento di Pietro, Settimio Di Porto) o momenti di lancinante dolore (la lenta salita verso Il Golgota con la muta disperazione di Maria, interpretata da Susanna Pasolini, madre del regista, alla vista del figlio inchiodato sul legno): il tutto sottolineato da un’incredibile, straniante, commento musicale (coordinato da Luis Enríquez Bacalov), che mescola Bach, Mozart, spirituals e blues afroamericani.

(Midbar)

Un’opera dal grande fascino visivo, intrisa di poesia così come del gusto pittorico del regista nelle inquadrature, esaltate dalla fotografia in bianco e nero di Tonino Delli Colli e dai costumi di Danilo Donati, ispirati appunto alla pittura del Quattrocento (Piero della Francesca in particolare), in cui si staglia nitida e possente l’immagine di un Gesù essenzialmente uomo, la cui divinità è resa dai comportamenti e dai gesti rivoluzionari, nella contraddittorietà pressante di un messaggio rivolto a portare necessarie divisioni in nome di un nuovo spirito umanitario; come molti uomini appare conscio della necessità e dell’utopia della buona novella, tanto che anche in punto di morte, affidata l’anima a Dio fra gli spasimi e i tormenti, non può fare a meno di urlare il suo dolore ad un’umanità sempre più scettica e smarrita, in nome di “una nuova resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica, compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione”. (Pier Paolo Pasolini, da Il Giorno, 6 marzo 1963)


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