Fuori era primavera – Viaggio nell’Italia del lockdown

Presentato alla 15ma Festa del Cinema di Roma, Fuori era primavera- Viaggio nell’Italia del lockdown è un film collettivo nato dall’idea di Gabriele Salvatores intesa a documentare visivamente quel periodo compreso tra il 24 marzo e il 30 maggio dell’anno in corso, quando il nostro paese conobbe, causa l’incombere pandemico del Covid 19, un drastico ed improvviso periodo di quarantena volto a limitare per quanto possibile i danni dirompenti dell’emergenza sanitaria. Impossibilitato, come tutti, ad uscire fuori dalle pareti domestiche, Salvatores andò quindi a formulare una richiesta agli italiani, inviare dei video che rendessero testimonianza alle esperienze, emozioni e sensazioni che stavano per viversi in quel particolare periodo: nell’ambito del materiale inviato sarebbe stata messa in atto una selezione e provveduto infine ad apportarvi congruo linguaggio cinematografico attraverso un lavoro di montaggio, quest’ultimo opera di Massimo Fiocchi e Chiara Griziotti, che già si adoperarono al riguardo per un precedente ed analogo progetto del regista, Italy in a Day-Un giorno da italiani (2014). Il risultato è un documentario piuttosto diretto, coinvolgente e  suggestivo, incline anche a suscitare momenti di sincera commozione nel suo fluido giustapporsi visuale relativo alla cronologia degli eventi, d’altronde già raccontati nel corso di questi mesi da giornali, telegiornali o trasmissioni d’inchiesta; rispetto alla consueta cronachistica giornaliera dei media Fuori era primavera, nel suo felice scorrere narrativo, ha però un merito precipuo, certamente da non sottovalutare, ovvero quello di fungere da testimonianza storica, “fare memoria” di un accadimento già divenuto “ieri” e che sarebbe bene far sì che non venga avvolto dall’oblio, come da consueta e triste abitudine.

Inoltre vengono sviluppate opportunamente delle sottotrame quali elementi di coesione corale: le vicende di una coppia in attesa di un bambino (il futuro), le esternazioni di un’anziana donna nata durante la I Guerra Mondiale e che ha vissuto l’esperienza della II (il passato), le pedalate in solitaria (l’oggi) di un fattorino intento a portare a compimento le (poche) consegne, tra fatica fisica ed esistenziale (“Ed anche oggi si guadagna di meno”, il suo amaro commento). La narrazione prende il via con le immagini di splendidi scenari nei quali risalta, fulgida protagonista, una Natura incline a manifestare un’evidente supremazia nei confronti di quei tanti esseri umani che vediamo brulicare all’interno di una qualsiasi anonima metropoli, i quali, da lì a poco, avrebbero dovuto fare i conti con l’incipiente rivendicazione di quel rapporto paritario che negli anni le è stato sottratto in nome di una presunta ed imposta egemonia; ripercorre poi, brevemente, la primaria individuazione del virus nella città cinese di Wuhan, quel “microbo che ci ha messo tutti in ginocchio”, riprendendo le parole esternate da un frate ed illustra quindi la progressiva desertificazione delle vie cittadine, visualizzando quell’aura dalla consistenza densamente irreale, quasi onirica, che arriva a contornare piazze e monumenti, egualmente ad ogni luogo d’incontro collettivo, dal cinema ai teatri, passando per gli abituali ritrovi, mentre il  personale sanitario, medici ed infermieri, dovrà presto adeguarsi ad un diverso modo di lavorare, nel ricorso necessario a vari sistemi di protezione individuale per assistere gli ammalati di Coronavirus, trovandosi infine di fronte agli occhi la sempre più pressante ed angosciosa realtà di persone destinate a morire in solitudine, private del conforto dei loro cari.

Se lungo le vie cittadine riecheggia lugubre il continuo suono delle sirene, le ambulanze sfrecciano sempre più numerose col passare dei giorni nell’accumularsi di eventi luttuosi (la lunga fila dei camion militari a Bergamo nel trasportare le bare al cimitero), la vita dentro le case prosegue necessariamente il suo corso, lo smart working diviene una costante, così come l’alternanza di diverse attività, ingaggiando una quotidiana lotta per mantenersi vivi, ovviamente con modalità diverse da quelle messe in atto da coloro che giacciono in un letto d’ospedale o versano in condizioni, morali e materiali, ulteriormente disagiate. Viene gradualmente alla luce, forse inaspettato, tanto uno spirito di condivisione quanto un senso d’appartenenza che sembravano entrambi da tempo sopiti, egualmente ad una generale assunzione di responsabilità e ritrovato senso civico, al di là dei canti sui balconi e del generico ritornello di conforto (“andrà tutto bene”): in questo, riprendendo quanto già scritto, il documentario curato da Salvatores offre quindi non solo il valore di una struggente testimonianza, ma anche, riporto la mia primaria sensazione, la base per un confronto con lo stato delle cose scaturito una volta scattata la fase di convivenza col virus e sono andate ad allentarsi le restrizioni, quando, smaniosi di riappropriarci della nostra rituale quotidianità, ci siamo rivelati pronti a rimetterci “in bilico tra Molière e il Grand Guignol”, citando Pasolini, ponendo in essere spesso comportamenti sconsiderati, dimenticando quel senso di responsabilità di cui sopra.

Risulta allora evidente come non si sia stati in grado, pur senza sottovalutare problematiche legate all’occupazione, all’attività scolastica, ai rapporti umani in genere, di conferire alla crisi che ci ha colpiti a livello mondiale l’accezione che all’origine le era propria (dal verbo greco κρίνω, ovvero “separare”, utilizzato ai tempi per indicare lo stadio conclusivo della raccolta del grano, il distacco dei chicchi dalle brattee che li racchiudono), una fase necessaria di un passaggio verso un’inedita dimensione da conferire alla nostra esistenza, ovvero il senso proprio di una ritrovata umanità e di una definitiva condivisione, all’interno di una società propensa ad abbracciare un progresso prettamente materiale, necessario beninteso, ma distante da un’effettiva evoluzione nel suo incedere all’insegna di un individualismo anche, se non soprattutto, ideologico. Andando a concludere, ritengo che Fuori era primavera, pur potendo a volte apparire ripetitivo nel suo proporre attraverso lo scorrere delle immagini identiche situazioni, sia un’opera preziosa e necessaria, in quanto visione di ciò che potremmo essere ma che non riusciamo compiutamente ancora a divenire, magari offrendo corporeità alle parole espresse da Lucio Anneo Seneca, “La Terra è un solo paese. Siamo onde dello stesso mare, foglie dello stesso albero, fiori dello stesso giardino” (frase ripresa da un noto marchio tecnologico cinese nel donare all’Italia, agli inizi del lockdown, migliaia di mascherine al Dipartimento della Protezione Civile).

Proprio perché siamo nel mezzo di una bufera, è ancora più importante avere consapevolezza e memoria del percorso che ci ha portati fin qui. (Corrado Augias, Breviario di un confuso presente, Frontiere-Einaudi, 2020)


2 risposte a "Fuori era primavera – Viaggio nell’Italia del lockdown"

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