Un ricordo di Cecilia Mangini

Cecilia Mangini (Mola Libera)

Ci lascia Cecilia Mangini (Mola di Bari, 1927), morta ieri, giovedì 21 gennaio, a Roma, documentarista impegnata, nonché fotografa, saggista e sceneggiatrice, lucida cantrice con le sue opere di un’umanità alle prese con i profondi mutamenti che andavano ad interessare un paese pesantemente segnato dal secondo conflitto e prossimo ad una ricostruzione che avrebbe dovuto garantire un progresso, ed un benessere, sociale ed economico, alla portata di tutti ma nella realtà quotidiana incline a creare più di una diseguaglianza sociale, con relative contrapposizioni, per poi giungere ad una confusa omologazione, così come una progressiva trasformazione delle campagne in desolate periferie. Rilevante poi la collaborazione col compagno  Lino Del Fra (1929-1997) nel mettere in evidenza, sullo sfondo del quadro sociale descritto, le varie trasmutazioni politiche, e di conseguenza socio-culturali, che andarono ad interessare l’Italia dal dopoguerra fino a tutti gli anni ’70; basterebbe citare al riguardo All’armi siam fascisti!, 1960, girato insieme a Lino Micciché, avvento, declino e rinascita, quest’ultima più o meno latente ma con segnali sempre evidenti, del movimento fascista, in un lucido montaggio di immagini d’epoca e voci fuori campo (testi di Franco Fortini), affidando il giudizio di quanto visivamente illustrato alla Storia. Altrettanto importanti anche i documentari volti a far conoscere la vita all’interno delle fabbriche, lungi ovviamente dai fin troppo consueti intenti promozionali, insieme a quelle realizzazioni, certo lungimiranti, idonee a porre in risalto le conseguenze di un’industrializzazione senza criterio, soprattutto nel Sud Italia (Tommaso, 1965; Brindisi, 1966; In viaggio con Cecilia, 2012, girato in collaborazione con Mariangela Barbante, fra Brindisi e Taranto, visualizzando una certa apatia, ancor prima che disinteresse, delle nuove generazioni, alla luce di un progresso prettamente materiale). Interessante anche la collaborazione con Pier Paolo Pasolini, per certi versi inevitabile considerandone le comune inclinazioni nel voler offrire spazio alle esternazioni ancora così “primitive” e spontanee degli “ultimi”, quel sottoproletariato urbano costituente un mondo a parte, visto nella sua purezza ancora incontaminata, che sopravvive grazie ad una primordiale ingenuità.

(Siderlandia)

Ecco quindi il film d’esordio come regista, dopo l’esperienza in qualità di fotografa, sempre del reale, influenzata dal cinema neorealista ma soprattutto interessata a tutto ciò che nelle strade, circoscritto dalla rituale quotidianità, si palesasse a portata d’obiettivo, Ignoti alla città, 1958, cui seguirono, sempre in collaborazione con Pasolini, Stendalì – Suonano ancora, 1960, che rende testimonianza all’allora ancora diffuso rito delle lamentazioni funebri, nel territorio del Salento e La canta delle marane, 1961, ispirato al romanzo Ragazzi di vita (Garzanti, 1955). Una volta descritte le tematiche affrontate con le sue opere e citati alcuni titoli di una filmografia che dagli anni ’50 si protrasse fino all’inizio degli anni ’80 (Comizi d’amore ’80, 1983, reportage in tre puntate su come gli italiani intendono la sessualità, commissionato dalla RAI a diciotto anni di distanza dal prezioso Comizi d’amore pasoliniano) per poi riprendere nel 2012, vertendo sempre su varie tematiche sociali, dallo sfrenato “consumismo festivo” (Felice Natale, 1965) all’eutanasia (La scelta, 1967), senza dimenticare, fra l’altro,  il sistema educativo (La briglia sul collo, 1972), mi preme concludere ponendo risalto al lavoro della Mangini all’interno di un settore ritenuto, come tante altre professioni, territorio esclusivamente maschile (stando ad alcune statistiche, su 100 registi sette sono donne, un dato coincidente con le posizioni assunte nei vari ruoli di responsabilità), fra pregiudizi, imposizioni produttive, scarso spirito collaborativo, dove il percorso per emergere, tracciato dalla passione, dalla voglia di raccontare, di mettere in scena una storia, un vissuto particolare, determinate esperienze di vita, con i toni prescelti della denuncia sociale, coincide con l’affermazione definitiva di sé, in un continuo confronto con le proprie ed altrui capacità, quest’ultimo opportuno grimaldello per affrancarsi da ogni pregiudizio o stereotipo di sorta.


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