Un grande amore (Love Affair, 1939)

(Wikipedia)

Oceano Atlantico, fine anni ’30. Fra i viaggiatori a bordo della nave da crociera Napoli, ultimo scalo New York, vi è anche Michel Marnet (Charles Boyer), disinvolto ed elegante viveur la cui carriera di playboy sembra ormai prossima alla pensione, considerato come in America lo attende il matrimonio con la ricca ereditiera Lois Clarke (Astrid Allwyn), notizia diffusa a gran voce dalle principali radio del mondo. La sua traversata viene movimentata dal causale incontro con Terry McKay (Irene Dunne), affascinante cantante di night club, prossima a sistemarsi col suo “capo”, Kenneth Bradley (Lee Bowman): un invito a cena, una frequentazione sempre più assidua, lo scambio reciproco di alcune confidenze, trascorsi di vita, aspettative e speranze, cercando di sottrarsi ai pettegolezzi degli altri passeggeri, anche considerando quanto li attende una volta giunti nella Grande Mela. Quello che sembrava essere nient’altro che un reciproco gioco seduttivo andrà però presto a trasformarsi in qualcosa di più profondo, in particolare una volta che la Napoli attraccherà per una sosta a Madera, dove Michel, in compagnia di Terry, farà visita all’affezionata nonna Janou (Maria Ouspenskaya), la quale, sentendosi ormai avvicinare il momento della propria dipartita, benedirà implicitamente la loro unione. I due, ormai consapevoli dei sentimenti provati, riflettendo sulle rispettive condizioni esistenziali, Michel in particolare non ha mai lavorato in vita sua e non è mai stato capace di mettere a frutto il naturale talento per la pittura, ormai prossimi all’arrivo in America, si danno appuntamento per il 1° luglio, nel posto che a New York “è più vicino al Paradiso”, la cima dell’Empire State Building, sempre che il loro amore sia ancora vivido e si siano adoperati per rinvenire di che vivere. Sei mesi dopo, Terry ha ormai lascito Bradley per procedere in autonomia con la sua attività di cantante, mentre Michel si è dedicato anima e corpo alla pittura, mantenendosi con vari mestieri in attesa di sfondare. L’uomo è già in cima al maestoso edificio, mentre l’emozione e la fretta stanno per giocare un brutto scherzo a Terry, che verrà travolta da un’auto nell’attraversare la strada, perdendo l’uso delle gambe…

Irene Dunne e Charles Boyer (MoMa)

Diretto da Leo McCarey (1898-1969), regista piuttosto abile nel mettere in scena, suffragando una leggiadra e sapida classicità, i dialoghi brillanti e le situazioni proprie della screwball comedy (basterebbe citare The Awful Truth, 1937), senza dimenticare le concrete propensioni alla comicità pura (negli anni Venti scrisse e diresse vari cortometraggi per il duo Stan Laurel ed Oliver Hardy, mentre del 1933 è Duck Soup, protagonisti i Fratelli Marx), Love Affair è un titolo che rappresenta una mutazione di rotta nella sua filmografia, la propensione verso il melodramma, senza però incedere in alcun modo verso i gravami del sentimentalismo spicciolo e ricattatore, bensì puntando al realismo e senza dimenticare i toni sanamente leggeri ed ironici propri della classica sophisticated comedy. McCarey ne scrisse il soggetto, assieme alla moglie Mildred, sfruttando un’idea sorta una volta fatto ritorno negli Stati Uniti dopo una crociera in giro per l’Europa, osservando dalla nave lo skyline della città di New York ed immaginando una storia d’amore sorta in viaggio fra due persone già “promesse”: il tutto venne tradotto nella brillante sceneggiatura ad opera di Delmer Daves e Donald Ogden Stewart (col contributo di S.N. Behrman, non accreditato), attenta alla caratterizzazione dei personaggi anche attraverso un’arguta composizione dei dialoghi. A tutt’oggi può ancora stupire come McCarey sia riuscito ad offrire una visualizzazione tanto veritiera, nonostante l’evidente ricostruzione in studio, quanto “magicamente” sospesa in una sorta di “dimensione altra”, nella cui cornice un uomo ed una donna, non più in giovane età,  si affidano alla forza propulsiva dell’amore quale opportuna spinta volta a mutare i propri reciproci destini, arrivando a comprendere, e conseguentemente a conferirvi una dimensione pressoché definitiva, la piena portata della propria più intima essenza esistenziale.

Maria Ouspenskaya e Boyer (YouTube)

Un arco quello descritto tracciato dal sotteso fil rouge che va a snodarsi dalla constatazione, solcata da un tono quasi mistico, dell’essere fatti l’uno per l’altra, espressa dal silente disincanto di nonna Janou, splendido personaggio, per poi concretizzarsi nella presa di coscienza al riguardo espressa da Michel (l’ottimo Boyer, una resa recitativa naturale, elegante, mai affettata) e Kelly (Irene Dunne quanto mai ispirata, suadente e dolente al contempo) nella bella sequenza che li vede di notte sul ponte della nave, impossibilitati a prendere sonno, ormai del tutto consci dei sentimenti provati, nel tormento di come affrontarli e dar loro un seguito concreto. Riprendendo quanto già scritto, McCarey affronta il classico tema di un amore impossibilitato ad esprimersi causa una serie di impedimenti, sostenendo sì la linea del melodramma, ma anche andando ad innestarvi su di esso altri generi volti a mitigarne l’impatto, gli stilemi propri della citata commedia sofisticata ma anche quelli del musical: a tale ultimo riguardo anzi, vi è da notare, come già notato da molti, che la musica riveste un ruolo rilevante nel farsi cartina di tornasole dei vari mutamenti che vanno ad attraversare l’iter narrativo, dal duo di Terry con nonna Janou al pianoforte, alla esibizione della donna in un locale di Philadelphia, lontana ormai dall’egida protettiva del fidanzato, senza dimenticare che una volta costretta sulla sedia a rotelle riprenderà a vivere con rinnovato entusiasmo insegnando canto ai bambini di un orfanatrofio.

(The Sill of the World)

E’ poi evidente una soffusa ironia moderatrice,  che trova la sua sublimazione nel bellissimo finale, quando Michel si renderà conto del perché Terry non si era fatta più né vedere né sentire e quest’ultima nell’abbracciarlo esclamerà: “Non ti preoccupare, non dovrà essere un miracolo, se tu puoi dipingere io potrò camminare…Tutto può succedere, non credi?”. McCarey girerà nel 1957 un remake più o meno pedissequo del film, stesso titolo (in italiano Un amore splendido), protagonisti Deborah Kerr e Cary Grant, meno ispirato rispetto all’originale ma convincente in virtù, oltre che per la storia in sé, delle ottime prove attoriali e per la resa scenica della fotografia in Technicolor, citato in Insonnia d’amore (Sleeples in Seattle, USA, 1993, Nora Ephron). Altro rifacimento risale al 1994, regia di Glenn Gordon Caron ed Annette Bening protagonista con Warren Beatty, sempre col titolo originale, andando infine ad ispirare anche Bollywood (Bheegi Raat, 1965, Kalidas, basato sul primo rifacimento, così come Mann, 1999, Indra Kumar). A Love Affair conseguì sei nomination all’Oscar: Miglior Film, Miglior Attrice (Irene Dunne), Miglior Attrice non Protagonista (Marija Ouspenskaja), Miglior Sceneggiatura Originale (Mildred Cram e Leo McCarey), Miglior Canzone (Buddy G. DeSylva), Miglior Scenografia (Van Nest Polglase e Alfred Herman) ed anche se il citato remake del ’57 è probabilmente più noto, ritengo che quell’aura propria dell’originale, così magica e concreta al contempo,  sia del tutto insuperabile.

Già pubblicato su Diari di Cineclub N. 91- Febbraio 2021


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