Rifkin’s Festival

(MyMovies)

New York, tempi nostri. Mort Rifkin (Wallace Shawn) narra all’analista quanto successo durante il soggiorno in Spagna, dove si era recato insieme alla moglie Sue (Gina Gershon), la quale, in qualità di componente dell’ufficio stampa del giovane regista Philippe (Louis Garrel), doveva presenziare al Festival di San Sebastián, luogo deputato alla presentazione dell’ultima fatica del cineasta. Quest’ultimo appare fin troppo pieno di sé, tanto da affermare che la sua prossima realizzazione potrà addirittura contribuire a sanare il conflitto fra arabi ed israeliani, “un film di fantascienza”, come esclama Mort con fare sarcastico. Il nostro infatti, professore di storia del cinema in pensione, notando anche una forse eccessiva simpatia della consorte verso Philippe, considera quest’ultimo nient’altro che un rappresentante di “quel cinema aderente alla realtà e per questo osannato dalla critica”, una produzione cinematografica a lui invisa, preferendole di gran lunga i classici, per lo più europei, a firma di autori quali Bergman, Fellini, Truffaut, Buñuel, Godard… Molte sequenze di quei capolavori si stagliano nitide nei suoi sogni notturni e nelle sue visioni diurne, rielaborazione dell’inconscio di accadimenti passati o recenti, portandolo a riflettere su quale significato conferire all’esistenza, oltre alla similitudine con la fatica di Sisifo, magari pensando ad Albert Camus (“Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”). Inoltre è alla ricerca di una concreta ispirazione per un suo libro in fase di stesura, che nelle sue intenzioni dovrà necessariamente raggiungere la perfezione, non rasentarla.

Wallace Shawn, Gina Gershon e Louis Garrel(Cinematografo)

Preso atto di come ormai il mondo, insieme a buona parte della varia umanità che lo compone, segua un andamento del tutto diverso dal suo, mentre le considerazioni che esterna al riguardo sono soverchiate da un indistinto cicaleccio pseudoculturale, Mort, fra un dolore al petto ed una vescica alla mano, avrà modo di conoscere la giovane dottoressa Jo Rojas (Elena Anaya), spirito per certi verso affine, amante com’è del piacere delle piccole cose che può riservare il vissuto quotidiano e delle pellicole d’antan, sposata col pittore Paco (Sergi López), rapporto vissuto all’insegna della “libertà espressiva”. Una breve frequentazione, un piacevole refolo a solleticare nuovamente il cuore, pur nella consapevolezza che tale primavera “non potrà mai divenire estate”, nella assunta convinzione, sulla via della separazione con Sue, la quale ha ammesso la relazione con Philippe, che il tanto ricercato senso della vita sia dato essenzialmente dalle nostre azioni e dalle nostre reazioni di fronte ai vari accadimenti. Da non trascurare, inoltre, come gli suggerisce la Morte (Christoph Waltz), sopraggiunta dal bergmaniano Il settimo sigillo, ennesima visione cinefila, la ginnastica quotidiana, il mangiare frutta e verdura evitando i grassi saturi e i cibi trattati, oltre a concedersi una salutare colonscopia… Scritto e diretto da Woody Allen, Rifkin’s Festival, pur trasudando la raffinatezza propria dell’autore nella redazione dei dialoghi e nella composizione visiva, al pari di una “sana” leggerezza, non può che considerarsi un film minore, in particolare se confrontato, senza scomodare i classici alleniani, con il precedente Un giorno di pioggia a New York.

(Orgoglio Nerd)

Quanto testé scritto non sta comunque a significare che Rifkin’s Festival non acquisisca una certa rilevanza all’interno della filmografia di Allen, in quanto ritengo lo si possa considerare un suggestivo compendio del suo modo d’intendere la vita e l’arte, in ogni sua manifestazione, alla luce di una loro reciproca confluenza nell’allestire congiuntamente un congruo fortino atto ad opporre la propria strenua resistenza al tracimante prolasso dell’umanità nel suo complesso, ormai del tutto, o in buona parte, soggiogata da una mera rincorsa al superfluo, nel tentativo di conferire un qualsiasi significato al quotidiano tribolare, non riuscendo più a cogliere la bellezza di un qualsivoglia attimo incline a conferirvelo, dalla visione di un caratteristico scorcio cittadino rimasto intatto negli anni e a noi caro, alla contemplazione di un tramonto o di una metropoli sotto la pioggia. Da non trascurare, poi, quei battiti che il cuore ancora ci concede e la ragione non intende, citando il poeta, pur arrivando a comprendere, o quanto meno ad intuire, che, al di là di una scombussolata aritmia, non porteranno alcunché. Servendosi, con modalità conclamata, di Wallace Shawn quale mimetico alter ego, Allen conferisce al film una compiuta circolarità, iniziando e concludendo la narrazione nello studio dell’analista, al quale infine Rifkin rivolgerà la fatidica domanda, esternare un parere su quanto raccontato, senza però che la risposta possa essere ascoltata: è un invito rivolto a noi spettatori, la condivisione o meno di un particolare percorso cinefilo-esistenziale, nelle forme di un esibito divertissement, così da prendere posizione sull’assunto proprio del suo modo d’intendere la vita e tutto ciò che vi faccia parte, d’altronde già delineato nel corso degli anni nell’ambito della propria attività.

Elena Anaya e Shawn (Virtù Quotidiane)

Ecco allora che, andando dal particolare all’universale, l’unica certezza volta ad una possibile salvezza (dal degrado, dalla perdita del senso di ogni bellezza, dalla mancanza di un minimo di condivisione espressa al di fuori del proprio ambiente di appartenenza) può essere rappresentata tanto nel lasciarsi coinvolgere dalla continuità della vita, recitando giornalmente la nostra parte sul palcoscenico offertoci (Shakespeare), quanto dall’assunta consapevolezza del proprio apporto. Quest’ultimo andrà ad esplicarsi sia nella sua generalità, sia nella sua specificità (professionale, culturale, artistica), ambedue espresse, sempre e comunque, da ogni singolo individuo in quanto tale. Opportuna ciambella di salvataggio, poi, l’ironia, espressa anche, se non soprattutto, nei confronti di se stessi, così da palesarsi, per dirla con Romain Gary, come “una dichiarazione di dignità, un’affermazione della superiorità dell’uomo su ciò che gli capita”, panacea idonea ad ovviare a quel senso di inadeguatezza e di solitudine che ti prende quando vedi il mondo, il tuo mondo, cambiare repentinamente, costringendoti ad una scelta: assecondare i suoi mutamenti, accompagnandoli coi tuoi, o a restare sospeso in un’incertezza di fondo.

Shawn e Christoph Waltz (SIAE)

Anche se il gioco della trasmutazione cinefila del reale diviene presto fin troppo reiterato, pur nella pregevolezza registica del “ricalco” omaggiante (il raffinato bianco e nero, “il colore del cinema”, trasmutato magicamente da Vittorio Storaro nel passaggio dalle tonalità calde con cui ritrae la cittadina spagnola), Rifkin’s Festival alterna con fluidità un’esemplare compostezza formale a un motteggio morale dai risvolti psicoanalitici e comportante riflessi esistenziali, senza trascurare un malcelato sarcasmo, mai del tutto malevolo, rivolto all’attualità cinematografica e non solo, riprendendo quanto già scritto nel corso dell’articolo. Uniamoci quindi pure al coro “dell’Allen minore”, ma rendiamo anche merito all’indomita voglia di “fare cinema”, di lasciarsi andare all’ affabulazione del racconto resa dal puro e semplice piacere di raccontare. Il tutto al netto di esibite idiosincrasie e vezzi propri di un individuo conscio, e probabilmente fiero, nel considerarsi come “un ritratto rinascimentale all’interno di un museo d’arte moderna” (Amabile Giusti, La donna perfetta, Mondadori, 2015), comunque capace di mettersi in discussione per (ri)affermare le proprie sicumere esistenziali, con grazia, ironia ed eleganza di stile. Grazie, buon vecchio Woody.


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